Forse, È Un Problema di genere. Magari ha a che fare con i
genitori che ci capitano in sorte. Lo ignoro. Tuttavia sono certa di aver
conosciuto e riconosciuto lo stress fin dalla più tenera età. Ogni occasione
era giusta per angosciarmi: il minestrone all’asilo, l’assenza della maestra,
una festa di compleanno nel giardino della Persichetti Oriana r delle sue mille
Barbie cavallerizze, la poesia a memoria, un paio di trecce non ben tirate che
scendono scomposte per colpa di una madre in viaggio di lavoro e di un padre
impiastro. Venivo colta dal panico se arrivavo in classe con abiti borghesi
invece che con la tuta di ordinanza, il giorno di educazione fisica. Per un
anno intero, ogni versione di greco mi ha provocato vertigini, nausea, tremori:
tutti sintomi, al mio sguardo ottimista di adolescente, dell’imminenza della
fine, Ho trascorso tutta la vita in preda ad ansie da prestazione, abbandono,
incertezza, esame. E a numerosi e molesti sensi di colpa, inadeguatezza,
inferiorità, insoddisfazione. Ho combattuto quotidianamente con un super ego
protervo, competitivo ed esigente che mi rimbombava imperativi superomistici
nella testa: “Devi essere sempre la migliore!”, “Sforzati!”, “Non fermarti
mai!”, “Non ti accontenterai mica?”, “E ora? Qual è il tuo prossimo
obiettivo?”, “Hai preso otto?” E la Persichetti? Scommetto che ha preso dieci.
E non ha i capelli crespi e i punti neri”. Mi sono rassegnata presto a
convivere con una cronica tensione a un modello di eccellenza inarrivabile.
Pensavo fosse così per tutti. Di certo lo è stato per mia madre, dotata di un
pedigree ineccepibile di successi e sfinimenti, tachicardie e perfezionismo,
rigore e autodistruzione. In parte lo è stato anche per l’economia marxista,
con cui mi accompagno da tempo immemore. Pure lui, che passa i giorni e le
notti cercando dentro lo schermo di un computer la formula matematica della
rivoluzione, è consumato da ossessioni e nevrosi da sempre. Siamo creature
condannate all’inquietudine, mi dicevo. Poi ho incontrato i miei figli e ho
capito che quella piantina prepotente e tenace non trova terreni sempre
fertili. Esistono età acerbe e libere dall’imperativo morale di sfinirsi ed
eccellere. La Persichetti Oriana non è un memento
universale, bensì l’inconsapevole carnefice di anime scelte e suggestionabili.
Lo stress è pane di molti, non di tutti, di certo non di mio figlio maggiore e
del suo incedere molleggiato alla placida conquista del mondo. È planato su
otto anni di scuola dell’obbligo senza un sussulto né uno sconforto senza
inseguimento del podio. “Tranquilla, mamma” è stato il suo mantra. “”Non hai
aperto libro e domani hai gli esami! Come farai?” “Scialla”. Si è iscritto al liceo classico
con l’inconsapevole leggerezza di una farfalla. “Ma sai che studierai
tantissimo?!”. “Eddài, mamma, rilassati. Fai come me. Goditi la vita”. Mio
figlio di mezzo coltiva passioni che spesso vivono in ossessioni, mai in ansia.
Si definisce solo per il suo personale piacere, per sfide endogene che iniziano
e finiscono dentro di lui. Primeggiare non gli interessa. Insegue sogni, anche
grandiosi, ma sempre slegati da modelli esistenti. Studia solo per godimento,
mai per stress. Le pratiche fastidiose le evade rapidamente, senza dolori, né
lamenti. I primi due sono lievi, il terzo sta imparando. Eppure sono solidi e
coriacei, ben più di me. Eppure sorridono più spesso di quanto facessi io alla
loro età. Eppure sembrano ben più in equilibrio. “Scialla, mamma”. E se
avessero ragione loro?
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 14
ottobre 2017 -
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