Certamente Per Il
Cognome, ma molto
anche per il suo carattere, Angela McQueen era cresciuta con la fama del
“tomboy”, del maschiaccio. I compagni la chiamavano Steve, come l’attore famoso
per i suoi numeri al volante, che era tornato improvvisamente d’attualità con
il film di animazione Cars. Ma a lei,
più delle macchine veloci, piaceva lo sport. Nella scuola pubblica di Mattoon –
paesone del MidWest americano, tra Indianapolis e St. Louis – che aveva
frequentato per tutta la sua vita di bambina e di ragazza, dalle elementari al
liceo. Angela aveva praticato ogni sport accessibile a una femmina. Primeggiava
nel basket, grazie al suo metro e ottanta di statura, e per la squadra del
liceo aveva segnato mille punti in quattro anni, record storico sia per maschi,
sia per femmine. Il suo sogno, però, era il football americano, quella sorta di
rugby corazzato. Con la complicità del suo ragazzo, che giovava nel team
scolastico, Angela un giorno aveva indossato di nascosto l’uniforme, completa
di elmetto l’uniforme, completa di elmetto, e partecipato a una partita di
allenamento come difensore, assegnata al placcaggio degli avversari. Solo
quando, in una mischia, le era stato strappato l’elmetto e i capelli biondi
erano scivolati sulle spalle, il coach, l’allenatore, si era accorto che era
una ragazza e l’aveva esclusa, a termini di regolamento. Non senza essersi
prima complimentato: “Avessi undici maschi come te, vincerei il campionato, le
aveva detto. Dieci anni, una laurea e un master più tardi. Angela (Steve)
McQueen era tornata nella scuola in cui era cresciuta, questa volta nelle vesti
di professoressa di matematica e, inevitabilmente, insegnante di educazione
fisica. Indossava ancora i leggings e la felpa dell’ora di educazione fisica
quando, la mattina del 22 settembre, è entrata nella caffetteria della scuola
per la pausa pranzo. Come tutti gli altri presenti, era curva sul telefonino e,
all’improvviso ha udito un suo nonché non aveva più sentito da quando il padre,
ex sergente dell’Esercito, la portava con sé al poligono di tiro, per
insegnarle a maneggiare le armi da fuoco. Era l’inconfondibile “clack”
metallico dell’otturatore di una pistola automatica, seguito subito dopo
dall’esplosione dei primi colpi. Uno studente aveva fatto irruzione nella
caffetteria e cominciato a sparare. Accanto ad Angela, una ragazza, che aveva
tentato di scappare, era caduta e gridava. Altri avventori correvano in tutte
le direzioni, inciampando o crollando sul pavimento. Intanto il ragazzo
sparava, sparava, interrompendosi soltanto per introdurre un caricatore nuovo. È
stato nella pausa brevissima, fra l’espulsione del caricatore vuoto e la sostituzione
con uno pieno, che Angela-il maschiaccio ja deciso di agire. È scattata dal
tavolo e si è buttata addosso al ragazzo con la pistola, ricordando le
istruzioni per il placcaggio dell’avversario. Si è lanciata alla sua vita,
piantandogli la testa contro il ventre, come un ariete, per togliergli il
fiato. Il ragazzo, sbalordito dall’assalto di quella bionda dai lunghi capelli,
ha tentato di puntarle contro la pistola, ma lei era stata più veloce: lui è
riuscito soltanto a vuotare il caricatore contro il soffitto. Angela l’ha steso
a terra, bloccandogli il braccio armato, mentre un addetto ai servizi – quello
che in altri tempi, politicamente scorretti, si sarebbe chiamato “un bidello” –
si gettava al suo fianco per immobilizzare definitivamente lo sparatore. Quando
sono arrivate le ambulanze, i dieci feriti, fortunatamente nessuno in pericolo
di vita, sono stati trasportati all’ospedale e il ragazzo arrestato. Angela,
detta Steve, ha rifiutato ogni intervista. Le sue uniche parole sono state
riferite dalla madre, che aveva sempre guardato male la sua passione per gi
sport da maschiacci: “Hai visto mamma? Non avere paura dei maschi può tornare
utile”.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica 14
ottobre 2017 -
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