“Si Figuri, I Cani possono entrare, è certa gene che
dovrebbe restare fuori!”. O, in alternativa: “Meglio un cane che un bambino”.
Queste sono le risposte cui ho cercato, senza successo. Di abituarmi da quando
ho preso un cucciolo e timidamente chiedo il permesso di entrare con lui in
ristoranti, bar ed esercizi commerciali di vario genere. Premetto, nel caso
fosse necessario, che amo i cani più di tutto da quando Carlo, il carlino che
ho persino ringraziato nel mio primo libro, è entrato nella mia vita undici
anni fa. Senza famiglia io, da allora lui è diventata la mia, seguendomi in
ogni città in cui ho vissuto. E quando un anno fa ha rischiato di morire, per
un’operazione errata in una clinica veterinaria di Livorno, ho lottato in ogni
modo per avere giustizia, purtroppo invano. Arrivato il nuovo cucciolo, ero
però impreparata allo status di amica di un quattrozampe nell’Italia 2017:
padrona non si può più dire, no è politically
correct, rimanda a quei tempi barbaro e remoti in cui i cani facevano la
guardia, vivevano nella cuccia, correvano liberi nei parchi e mangiavano
generiche crocchette. Nel giro di poche settimane, mi sono ritrovata ostaggio
di ogni tipo di consiglio (non richiesto) su come prendermi cura del mio amico
da parte di gentili sconosciuti. Di sguardi di rimprovero, se solo osavo
portarlo fuori senza cappotto nei giorni di vento. Di occhi gonfi di tenerezza,
mentre i passanti esclamavano il diritto a un selfie. Di sorrisi di
comprensione, quando la dolce bestiola si voleva mangiare tutto il ristorante,
e clienti e camerieri – gli stessi che sbuffavano per un neonato che aveva
osato piagnucolare nel passeggino accanto – accorrevano subito a compiacerla
con una fetta di prosciutto. Mi è stato persino suggerito – seriamente – di
aprire account sui social network per condividere ogni momento della crescita
del cucciolo, meglio se con un bel ficco in testa. Del resto, sui siti dei
principali giornali italiani, le notizie che riguardano dolci gattini o eroici
cagnolini sono sempre le più lette. Sprofondavo di vergogna perché non facevo
quasi nulla di ciò che mi veniva tanto calorosamente raccomandato e crescevo
senza troppi problemi il cucciolo, come avevo fatto con il mio primo cane, dieci
anni prima. Intanto mi infilavo in gruppo WhatsApp da duecento persone, il
contrappasso canino delle chat che tengono prigioniero ogni genitore di figli
di figli in età scolare. La mia rubrica si è riempita di Joda, di Tyson, di Contessa
e di Piccolo, perché di quella gente non conoscevo nemmeno il nome, solo quello
dei cani. Purtroppo erano, però, gli umani a scrivere, così ricevevo centinaia
di notifiche al giorno: nel migliore dei casi, ricette di cucina o indirizzi di
centri benessere; nel peggiore e più comune, commenti contro la politica,
contro i migranti, contro l’Europa, contro Trump e infine conto il mondo. Io
cercavo disperatamente di capire. Dopo un anno, ora che il cucciolo non è più
tale, forse ci sono riuscita. Sono, questi, tempi di sentimenti che oscillano
contemporaneamente fra eccessi e scarsità. Nel mezzo, tanta solitudine. In un
mondo sovrabbondante, come quello in cui viviamo, è facile che un amore scivoli
fino a diventare estremismo, come in alcuni casi quello per i nostri animali
domestici. Se un tempo la perteraphy era la miglior cura per il pensionato, ora
un cucciolo è diventata la social teraphy di moltissimi quarantenni (l’età
media di chi ho conosciuto al parco). Sempre più soli, dipendiamo dai nostri
cani come da uno smartphone perché, guinzaglio alla mano, ci costringono a
uscire dal nostro guscio, dal nostro divano e dal nostro monitor per almeno
dieci minuti al giorno, riducendoci a una socialità che non sempre sappiamo
ancora gestire. Ma mentre discutiamo del numero giornaliero dei bisogni dei
nostri amatissimi cani, sono altri gli amici che cerchiamo, e altre le cose che
vorremmo dire di noi.
Andrea Marcolongo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 30
settembre 2017-
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