Lei Afferma: “Persino la nostra psiche ospita un inconscio
tecnologico che sfugge all’interpretazione psicoanalitica, promossa da quella
lettura a sfondo umanistico che aveva i suoi referenti nello scenario familiare
dove decisivi erano mamma e papà”. Se non ho inteso male, fra le nuove
frontiere di studio c’è l’interazione uomo-tecnologia che dimostra, ancora una
volta, come tutto ciò con cui entriamo in relazione modifica la nostra natura.
Ma quanta consapevolezza c’è da parte di chi “muove” tale inconscio attraverso
la tecnologia? Mi pare che, spesso, il mercato comprenda prima e meglio di
molte altre “istituzioni” certi tipi di funzionamento. KatiaBernuzzi kappaelle11@gmail.com
Freud Ci Ha Spiegato che “l’Io non è padrone in casa
propria” perché, accanto alla soggettività che gli riconosciamo, siamo abitati
da un’altra soggettività, quella della specie che, per un certo periodo della
nostra esistenza, ci fornisce sessualità per la procreazione e aggressività per
la difesa della prole. Questa soggettività è inconscia: non le prestiamo la
minima attenzione, probabilmente per non essere mortificati dall’idea di essere
semplici funzionari della specie. Da cui dipende la nostra nascita casuale e la
nostra mrte cui la crudeltà innocente, necessita di nuovi individui in grado di
procreare. Del resto, ce lo ricorda Arthur Schopenhauer: “Il soggetto del gran
sogno della vita è in un certo senso uno solo: la volontà di vivere”. Oggi però
il nostro Io è assediato da un altro inconscio: a quello pulsionale, governato
dalle esigenze della specie, se n’è aggiunto uno che potremmo chiamare
tecnologico, con riferimento alla razionalità della tecnica che prevede il conseguimento
del massimo degli scopi con il minimo impiego di mezzi. Tutto ciò che esce da
questo schema, per la tecnica è irrazionale. Scopriamo così che, oltre a essere
funzionari della specie, lo diventiamo anche di apparati regolati dalla
razionalità tecnica e dai suoi valori: efficienza, funzionalità e produttività.
La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di
salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica “funziona”. E siccome il
suo funzionamento sta diventando planetario, non è possibile sottrarvisi, se
non pagando il prezzo dell’esclusione sociale. Passando dalla società della
disciplina alla società dell’efficienza, il conflitto non è più tra “permesso e
proibito”, con potenziale senso di colpa connesso a ogni trasgressione, ma tra
“possibile e impossibile”. In questo caso, subentra il senso di inadeguatezza o
di insufficienza tra ciò che si è in grado di fare e non, secondo le attese
dell’apparato di appartenenza, da cui dipende il riconoscimento della nostra identità
e del nostro valore. Da sempre l’identità dipende dal riconoscimento, ma quando
il riconoscimento lo attendiamo unicamente dal nostro apparato di appartenenza
(che ci valuta solo a partire dalla nostra efficienza e funzionalità), quando
la nostra libertà dipende dal ruolo che in quell’apparato rivestiamo, a guisa
di attori che recitano la propria parte (“rotulum”, da cui “ruolo”) già scritta
e descritta dalle esigenze dell’apparato quando la nostra responsabilità è solo
nei confronti del mansionario che ci è stato assegnato e quindi nei confronti
dei nostri superiori, senza alcuna attenzione alle conseguenze delle nostre
azioni, quando il nostro vicino non è più un compagno di lavoro ma diventa
senza volerlo un nostro competitore se è più efficiente e produttivo di noi,
allora per evitare il senso di inadeguatezza che ci rende ansiosi, insonni e
insicuri, non ci resta che rinunciare ad essere noi stessi. A favore di
un’omologazione alle esigenze dell’apparato che, a questo punto, ci riconosce
unicamente come sua componente, qualunque sia la macchina: amministrativa,
burocratica, industriale o commerciale. Quel tanto di autonomia che il nostro Io,
nel corso della storia, ha guadagnato nei confronti dell’inconscio pulsionale
governato dalle esigenze della specie, oggi lo consegna all’inconscio
tecnologico, a partire dal quale ci giudichiamo più o meno validi, a misura
dalla più o meno riuscita integrazione con l’apparato di appartenenza. Ne
consegue che l’invito dell’oracolo di Delfi, “Conosci te stesso” in vista della
sua autorealizzazione, o quello di Nietzsche, “Diventa ciò che sei”, nella
società regolata dalla razionalità tecnica sono praticamente impossibili. E una
volta che abbiamo interiorizzato questa impossibilità, l’inconscio tecnologico
ci induce a riconoscerci non più nel nostro mondo. Ma unicamente nel mondo
predisposto dall’apparato.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 14
ottobre 2017 -
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