“Una cosa
fatta bene può essere fatta meglio.” Gianni Agnelli
Re d'Italia
Giovanni Agnelli detto Gianni, meglio
conosciuto come "l'Avvocato", per molti anni il vero e proprio emblema
del capitalismo italiano, nasce a Torino il 12 marzo 1921. I genitori lo
chiamano con il nome del suo mitico nonno, il fondatore della Fiat,
quella "Fabbrica Italiana Automobili Torino" che lo stesso Gianni
porterà ai suoi massimi fulgori dopo gli anni passati come apprendistato, in
qualità di vicepresidente, all'ombra di Vittorio Valletta, altra grande figura
manageriale che ha saputo guidare l'azienda torinese con sagacia ed eccellenza
dopo la scomparsa del fondatore avvenuta nel 1945.
Valletta aveva posto delle basi
solidissime per la crescita della Fiat (favorendo l'immigrazione dal
Mezzogiorno e conducendo con pugno di ferro le trattative con i sindacati), in
un'Italia uscita provata e martoriata dall'esperienza della Seconda Guerra Mondiale. Grazie al boom economico e al rapido sviluppo, poi,
gli italiani poterono permettersi i prodotti sfornati dalla casa torinese, che
vanno da celebri scooter come la Lambretta ad altrettanto indimenticate
autovetture come la Seicento, facendo della Fiat un marchio diffusissimo.
L'entrata di Gianni Agnelli nella stanza
dei bottoni, quella che gli conferirà il potere assoluto, è datata 1966, quando
gli viene finalmente conferito l'incarico di Presidente. Da quel momento in poi
per molti, Agnelli è stato il vero monarca italiano, quello che
nell'immaginario collettivo ha fatto le veci della famiglia reale esiliata da
un decreto costituzionale.
Ma la conduzione Agnelli non si rivelerà
per nulla facile. Anzi, a differenza dei suoi predecessori, l'Avvocato si
troverà ad affrontare quello che forse è stato il momento più difficile in
assoluto per il capitalismo italiano, quello contrassegnato dalla contestazione
studentesca prima e delle lotte operaie poi, fomentate e incentivate in modo
virulento dall'esplosione rivoluzionaria. Sono gli anni in cui si susseguono i
cosiddetti "autunni caldi", un ribollire di scioperi e di picchetti
che mettono in grave difficoltà la produzione industriale e la competitività
della Fiat.
Agnelli, però, ha dalla sua parte un
carattere forte e comprensivo, tendente alla mediazione delle parte sociali e
alla ricomposizione delle contraddizioni: tutti elementi che gli permettono una
gestione lungimirante e ottimale delle contestazioni, evitando di esasperare
gli scontri.
In mezzo a tutte queste difficoltà
riesce dunque a traccheggiare la Fiat verso porti dalle acque tutto sommato
sicure. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e dal 1974 al 1976 è eletto a
gran voce Presidente della Confindustria, in nome di una guida che gli
industriali vogliono sicura e autorevole. Anche questa volta, il suo nome è
visto come garanzia di equilibrio e di conciliazione, alla luce della
ingarbugliata situazione politica italiana, simbolo evidente delle più
clamorose contraddizioni.
Unico fra i paesi europei, nella
penisola si stava consumando il cosiddetto "compromesso storico",
ossia quella specie di accordo bifronte che vedeva alleati il partito cattolico
per eccellenza, quindi visceralmente anticomunista, come la Democrazia
cristiana e il Partito Comunista Italiano, portavoce del socialismo reale e
dell'alleanza ideale con la Russia (sebbene criticata e per certi versi
ripudiata).
A corollario di questo quadro già
incerto, vanno annoverate anche altre emergenze interne ed esterne di tutto
rilievo, come l'endemica crisi economica e il sempre più articolato e incisivo
terrorismo rosso di quegli anni, un movimento rivoluzionario che traeva forza
da un certo consenso non così poco diffuso. Ovvio dunque che il "metodo
Valletta" fosse ormai inconcepibile. Impossibile fare la voce grossa con
il sindacato, nè era ormai pensabile usare quel "pugno di ferro" con
cui il manager successore di Giovanni Agnelli era noto. Serviva invece un
lavoro di concertazione tra governo, sindacati e confindustria: i responsabili
di queste tre forze, saggiamente, sposeranno questa linea "morbida".
Ma la crisi economica, malgrado le buone
intenzioni, non lascia scampo. Le feree leggi del mercato piegano le buone
intenzioni e, alla fine degli anni '70, la Fiat si trova nel bel mezzo di una
terribile tempesta. In Italia imperversa una fortissima crisi, la produttività
cala spaventosamente e i tagli all'occupazione sono alle porte. Discorso che
vale per tutti e non solo per la Fiat, solo che quest'ultima è un colosso e
quando si muove, in questo caso negativamente, mette paura. Per fronteggiare
l'emergenza si parla di qualcosa come quattordicimila licenziamenti, un vero e
proprio terremoto sociale, se realizzato. Si apre dunque una dura fase di
scontro sindacale, forse il più caldo dal dopoguerra, passato alla storia
grazie a record assoluti come il famoso sciopero dei 35 giorni.
Fulcro della protesta diventano i
cancelli dei nevralgici stabilimenti di Mirafiori. La trattativa è in mano
completamente alla sinistra, che egemonizza lo scontro, ma a sorpresa il
segretario del Partito comunista Enrico
Berlinguer promette il sostegno del Pci in
caso di occupazione delle fabbriche. Il braccio di ferro si conclude il 14
ottobre, con la "marcia dei quarantamila" quando, del tutto
inaspettatamente, i quadri della Fiat scendono in piazza contro il sindacato
(caso unico di tutta la storia legata agli scioperi).
La Fiat, sotto pressione, rinuncia ai
licenziamenti e mette in cassa integrazione ventitremila dipendenti. Per il
sindacato e la sinistra italiana è una sconfitta storica. Per la Fiat è una
svolta decisiva.
L'azienda torinese è pronta dunque a
ripartire di slancio e su nuove basi. Agnelli, affiancato da Cesare Romiti, rilancia la Fiat in campo internazionale e, in pochi
anni, la trasforma in una holding con interessi assai differenziati, che non si
limitano più al solo settore dell'auto (in cui fra l'altro aveva ormai
assorbito anche l'Alfa Romeo e la Ferrari), ma vanno dall'editoria alle assicurazioni.
La scelta, al momento, risulta vincente
e gli anni '80 si rivelano fra i più riusciti di tutta la storia aziendale.
Agnelli si consolida sempre di più come il re virtuale d'Italia. I suo vezzi, i
suoi nobili tic vengono assunti come modelli di stile, come garanzia di
raffinatezza: a cominciare dal celebre orologio sopra il polsino, fino all'imitatissima erre moscia e
alle scarpe scamosciate.
Intervistato dalle riviste di mezzo
mondo, si può permettere giudizi taglienti, a volte solo affettuosamente
ironici, su tutti, dai politici in carica, agli amati giocatori
dell'altrettanto amata Juventus, la passione parallela di una vita (dopo la
Fiat, si capisce); squadra di cui, curiosamente, ha l'abitudine di guardare
prevalentemente un solo tempo, il primo.
Nel 1991 è nominato senatore a vita
da Francesco Cossiga mentre,
nel 1996 passa la mano a Cesare Romiti (rimasto
in carica fino al 1999). E' poi la volta di Paolo Fresco presidente e del
ventiduenne John Elkann (nipote
di Gianni) consigliere d'amministrazione, succeduto all'altro nipote,
Giovannino (figlio di Umberto e Presidente Fiat in pectore), scomparso
prematuramente in modo drammatico per un tumore al cervello.
Brillante e assai capace, doveva essere lui la futura guida
dell'impero Fiat. La sua morte ha sconvolto non poco non solo lo stesso
Avvocato, ma tutti i piani di successione dell'immensa azienda familiare. In
seguito, un altro grave lutto colpirà il già provato Avvocato, il suicidio del
quarantaseienne figlio Edoardo,
vittima di un dramma personale in cui forse si mescolano (stabilito che è
sempre impossibile calarsi nella psiche altrui), crisi esistenziali e
difficoltà a riconoscersi come un Agnelli a tutti gli affetti, con gli onori ma
anche gli oneri che questo comporta.
Il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli, dopo una lunga malattia si
spegne. La camera ardente viene allestita nella pinacoteca del Lingotto,
secondo il cerimoniale del Senato, mentre i funerali si svolgono nel Duomo di
Torino in forma ufficiale e trasmessi in diretta da Rai Uno. Seguiti con
commozione da un enorme folla, le cerimonie hanno incoronato definitivamente
Gianni Agnelli come il vero monarca italiano.
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