(..)
“Quello che
cerco di mostrare è come operi il pensiero umano nelle democrazie popolari. E
poichè l’ambiente che ho avuto modo di osservare più da vicino è quello degli
artisti e degli scrittori, questo libro è soprattutto uno studio su tale
ambiente, che a Varsavia come a Budapest, a Praga come a Bucarest ha un ruolo
importante.”
(..)
Czesław
Miłosz (1911-2004), poeta, romanziere, saggista,
traduttore, lituano di cultura polacca, Premio Nobel per la letteratura
1980,visse la tragedia nazista, l’occupazione tedesca della Polonia, e fu
testimone oculare della brutalità delle armate di Hitler. Dopo la guerra diventa
addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a
Parigi, nel 1951. Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al
clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca,
in seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in
Francia, per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A Berkeley, in
California, insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica
dedicandosi anche alla traduzione, per diffondere la poesia polacca in ambito
anglo-americano e poi europeo.
Tema
fondamentale di tutti gli scritti di Miłosz è sempre la salvaguardia della
dignità intellettuale dell’uomo. Non per nulla, nella motivazione per
l’assegnazione del Nobel si legge: « Who with uncompromising
clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe
conflicts. » (« A chi, con voce lungimirante
e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri
conflitti. »)
I
testi di questo libro, raccolti sotto il titolo La mente
prigioniera sono fondamentali per comprendere il suo pensiero.
Nei
primi tre capitoli, l’autore racconta l’esperienza dell’occupazione nazista in
Polonia e le durezze della guerra nel suo paese: l’ordine delle cose,
considerato naturale, viene spezzato da un evento di portata tragica che
ribalta tutto quanto prima era scontato.
“In generale l’uomo è incline a
considerare naturale l’ordine nel quale vive. […] Quale dei mondi è «naturale»?
Quello di prima della guerra o quello durante? «Entrambi lo sono» pensa l’uomo
al quale è stato dato di conoscerli entrambi. Non esiste istituzione, usanza o
abitudine che non possa subire cambiamenti. Tutto ciò di cui la gente vive le
viene dal contesto storico in cui si è venuta a trovare. La fluidità e il
mutamento costante sono una caratteristica dei fenomeni, e l’uomo è una
creatura così plasmabile che si può anche ipotizzare il giorno in cui attributo
del cittadino soddisfatto di sé sarà il camminare a quattro zampe con un ciuffo
di piume colorate sul didietro”.
Si
passa poi ad approfondire il tema del condizionamento del modo di pensare e di
agire in un regime dittatoriale. Cosa utilizza il regime per installare nelle
persone “…la paura di pensare per proprio conto…”? La censura e
la minaccia, certo, ma anche la messa in atto di dinamiche e meccanismi di
condizionamento più sottili ( “Il problema è troppo
serio per essere ridotto a una semplice questione di violenza.”)
A
Miłosz interessa soprattutto analizzare il comportamento degli intellettuali in
genere ma soprattutto quello di “una specie particolare: quella
degli intellettuali che si adattano”, ammettendo innanzitutto, con
molta sincerità, di essere stato lui stesso, almeno all’inizio, uno di quelli
che hanno cercato di adattarsi:
“Io ho fatto parte
della categoria probabilmente più numerosa, cioè di coloro che a partire dal
momento in cui il loro paese è finito sotto l’egemonia di Mosca si sono
sforzati di fare atto di obbedienza e sono stati strumentalizzati dal nuovo
regime.”Dice anche, però, di essersi presto reso
conto del fatto che “Via via che nelle democrazie
popolari la situazione si evolveva, lo spazio di manovra concessomi come
scrittore diventava sempre più ristretto”
Miłosz
esamina le tecniche – esteriori e interiori – con cui gli intellettuali, spesso
volontariamente, si adattavano, accettavano gli insegnamenti più radicali
dell’Unione Sovietica, che lui definisce il “Centro”, da cui provengono i
dettami di quello che lui chiama “Metodo”, e cioè il marxismo-leninismo o
meglio il “marxismo-leninismo in salsa russa”.
Certo, chi non è d’accordo con il regime
può (sempre che il regime glielo consenta) abbandonare tutto ed emigrare.
Scegliere l’esilio volontario. Ma si tratta di una scelta difficile e dolorosa
che non tutti vivono allo stesso modo, perchè
“Ci sono persone che
sopportano bene l’esilio. Altre invece lo sentono come una grande sventura e
sono disposte ad andare lontano sulla strada del compromesso pur di non perdere
la patria.”
Come sopravvivere, dunque, se non si ha
la forza e/o la possibilità di andarsene?
Simulando, mentendo, indossando una
maschera. Sempre. Ogni giorno. Ogni minuto di ogni giornata.
Per
illustrare questa condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime
totalitario e all’unica forma di difesa possibile per l’individuo che si trovi
in questa condizione, Czesław Miłoz ricorre a quello che l’autore
chiama Ketman, prendendo a prestito un
termine usato da Gobineau in un suo libro sulle
religioni e le filosofie nell’Asia Centrale: si tratta in sostanza di aderire solo esteriormente ai dettami della religione (nel
caso descritto da Gobineau, l’Islam), professando però interiormente
quella che viene considerata la verità, oppressa dalla fede esteriore.
In buona sostanza: il Ketman di cui
parla Miłosz (ed a cui dedica un intero lungo capitolo) è l’arte del
mascherarsi, del costante mascherarsi, una teatralità quotidiana in cui tutti
recitano con tutti e ne sono consapevoli; consiste nel fingere una perfetta
identificazione con il ruolo imposto.
Se ci si riesce, questo procura sollievo
e permette di allentare la tensione e la vigilanza; significa avere i riflessi
giusti al momento giusto, significa un’arte del teatro praticato su scala di
massa… Il Ketman è l’arte della dissimulazione, significa riuscire a non
esporre la propria persona, riuscire a porre sotto silenzio le proprie più
autentiche convinzioni. Miłosz enumera vari tipi di Ketman: quello nazionale
(manifestare ad alta voce e di continuo la propria ammirazione per le conquiste
della Russia nei vari campi, portare sottobraccio riviste e libri russi,
canticchiare canzoni russe, applaudire freneticamente i musicisti e gli attori
russi e così via), il Ketman della purezza rivoluzionaria, il Ketman estetico
(disprezzare in pubblico le espressioni artistiche considerate borghesi, cosa
che l’intellettuale può fare in privato ma solo a condizione che l’attività
creativa da lui svolta pubblicamente produca gli effetti propagandistici
desiderati). Il Ketman professionale, il Ketman scettico, il Ketman metafisico.
Coloro che gravitano nel mondo della
letteratura e dell’arte possono cercare anche di ricorrere a forme di evasione
che non facciano correre rischi. Ecco allora scrittori che si sprofondano in
testi antichi, commentano e traducono vecchi autori, scrivono volentieri libri
per bambini nei quali la fantasia gode di una più ampia libertà. Molti di loro
scelgono la carriera universitaria, poichè le ricerche di storia della
letteratura offrono un pretesto incontestabile per immergersi nel passato e
avere a che fare con opere di grande valore estetico. Si moltiplica anche il
numero dei traduttori di poesia e prosa antiche. I pittori cercano uno sbocco
ai loro interessi illustrando libri per bambini, poichè la scelta di colori
vivi può essere giustificata rifacendosi all’´ ingenua ‘ fantasia infantile’.
“Quanto alla poesia,
siccome le sue fonti difficilmente si distinguono da quelle della religione,
essa è particolarmente esposta al rischio della persecuzione. Certo il poeta
può descrivere le montagne, gli alberi e i fiori. Ma basta che provi di fronte
alla natura quel trasporto indefinibile che s’impadronì di Wordsworth durante
l’escursione a Tintern Abbey, perchè venga bollato e, in caso di resistenza,
scompaia dal mondo della vita letteraria. Questo è un ottimo mezzo per
annientare legioni di cattivi poeti che adorano far pubblico sfoggio dei loro
voli panteistici, ma lo è anche per annientare la poesia in generale
sostituendola con opere che hanno lo stesso valore delle canzoncine-rèclame
trasmesse dalla radio negli Stati Uniti.”
Leggendo
queste righe, come non pensare a Mandel’stam, alla Achmatova, a tutti quei
poeti russi perseguitati e finiti nei gulag staliniani…a tutti gli scrittori di
cui ci parla Rachel Polonsky ne La lanterna magica di Molotov i cui libri trova nella biblioteca dell’ex
appartamento di Molotov? Gran parte dei loro autori fu lo stesso Molotov a spedirli
nei gulag, durante il Grande Terrore…
“Il musicista dovrebbe
fare in modo che le sue composizioni siano facilmente traducibili nella lingua
dell’agire quotidiano entusiasmo per il lavoro, feste popolari e così via e che
non rimanga nulla di difficile da cogliere, vale a dire di sospetto.”
…
ed io penso a Shostakovich,
con il quale Stalin ha giocato sempre come il gatto con il topo, esaltandolo un
giorno elargendogli lodi sperticate, assegnandogli prestigiose onorificenze e
gettando nel terrore lui e la sua famiglia il giorno dopo quando gli sembrava
che la musica che componeva non fosse abbastanza orecchiabile e popolare…
Per farla breve: il concetto è che è
bene tutto quello che serve agli interessi della rivoluzione mentre è male
tutto ciò che a tali interessi nuoce.
Chi pratica il Ketman deve mentire, ma
paradossalmente, è proprio il Ketman che consente di realizzare se stessi
malgrado qualcosa.
Dopo
questi capitoli di taglio generale, Miłosz passa a raccontare — a scopo
esemplificativo — le vicende di quattro persone, tutti
intellettuali – romanzieri o poeti – che chiama, senza meglio
precisare i loro veri nomi, Alfa, Beta, Gamma e Delta, i quali, per i più svariati motivi, finiscono
per accettare la Nuova Fede e per servire gli scopi del Centro in quella nuova
Repubblica Popolare che è la Polonia del dopoguerra. Attraverso queste quattro,
emblematiche storie, Miłosz ci fa rivivere da grande narratore tutta un’epoca,
le sue contraddizioni, i suoi conflitti.
L’ultimo,
bellissimo capitolo del libro è intitolato I popoli baltici in
cui Miłosz ripercorre, in una lunga e dolente carrellata, la travagliata storia
di Estonia, Lettonia e Lituania di cui tra l’altro dice:
“La prima luce che ho
visto, il primo profumo di terra e il primo albero che ho conosciuto sono di
quei luoghi, perchè è in quelle regioni che sono nato da una famiglia di lingua
polacca sulle rive di un fiume dal nome lituano. E quegli avvenimenti sono per
me vivi come lo è soltanto ciò che si legge sul volto e negli occhi delle
persone che si conoscono bene.”
Miłosz
era anche, ricordiamolo, non solo saggista ma anche romanziere e soprattutto
grande poeta, e in La mente prigioniera ci
sono pagine e pagine in cui la sua arte del narrare avvince e commuove. Non
solo quando traccia i ritratti di Alfa, Beta, Gamma, Delta ma soprattutto
quando rievoca le tragiche giornate della caduta della Polonia, della guerra e
della fallita insurrezione di Varsavia contro i Nazisti mentre l’Armata Rossa,
poco lontana, si limitava a guardare senza intervenire.
Miłosz era lì, era nella Varsavia
distrutta dal fallimento di un’insurrezione decisa dal governo polacco a
Londra, fallimento che costò almeno 200mila morti e la distruzione della città.
Le pagine in cui lo scrittore racconta tutto questo sono terribili e difficili
da dimenticare.
La
mente prigioniera inoltre, indagando su
quello che succedeva nelle menti degli intellettuali che “si adattavano” era,
considerando l’epoca in cui venne scritto molto, forse anche troppo, in
anticipo sui tempi. Gli anni ’50 non erano ancora pronti per comprenderlo
appieno ed apprezzarlo.
Leggiamo
quello che lo stesso Miłosz scrive nella Premessa
all’edizione italiana scritta a Berkley nel 1981 (i grassetti
sono miei):
“Questo libro fu
scritto a Parigi nel 1951-52, cioè in un periodo in cui gli intellettuali
francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese
dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est,
governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù: Stalin. Quei loro
compatrioti che, come Albert Camus, osavano affermare che il fondamento stesso
di un sistema presumibilmente socialista era in realtà una vasta rete di campi
di concentramento, venivano vilipesi e ostracizzati dai loro colleghi. Quando fu pubblicato nel 1953, il mio libro spiacque praticamente
a tutti. Gli ammiratori del comunismo sovietico lo giudicavano insultante,
mentre gli anticomunisti sostenevano che mancava di una posizione politica
chiaramente definita e sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al
cuore, un marxista. Un’impresa solitaria, dunque, che però è stata
in seguito giustificata dai fatti e che si difende bene dalle critiche di
entrambe le parti.”
ed avverte:
“l’argomento del libro
è la vulnerabilità della mente, nel nostro secolo, alla seduzione delle dottrine
socio-politiche, e la prontezza con cui essa accetta il terrore totalitario in
cambio di un futuro ipotetico. Come tale, esso trascende i limiti di luogo e di
tempo in quanto esplora le ragioni più profonde dell’odierno desiderio di
sicurezza, anche la più illusoria. […] la forza di attrazione esercitata nel
mondo dal pensiero totalitario, sia di destra sia di sinistra, non appartiene
affatto al passato; al contrario, essa sembra crescere di giorno in giorno.”
Come potrei non essere (tristemente) d’accordo
?
Tutta
da leggere, infine, la Prefazione del
filosofo tedesco Karl Jaspers che, ricordando
quella “servitù dello spirito” negli Stati totalitari
sperimentato dai tedeschi all’epoca del nazionalsocialismo definisce la
raccolta dei testi contenuta in La mente prigioniera “un documento e al tempo stesso un’interpretazione di prim’ordine” e
risulta, scrive ancora Jaspers ” veramente commovente, per noi
tedeschi, forse, più ancora che per gli altri popoli occidentali, dato che noi
stessi abbiamo vissuto quel che qui è mostrato nella variante polacca. “
Note a
margine
Devo
soprattutto a Jan Brokken prima e a Francesco M. Cataluccio dopo il desiderio di
approfondire il pensiero di questo grande scrittore polacco-lituano, di cui in
precedenza avevo letto, è vero, La mia Europa, ma —
mi sono resa conto con Brokken e Cataluccio — non ne avevo colto che solo in
piccola parte sfumature e implicazioni.
Proprio
a causa di quella mia lettura troppo superficiale di La mia Europa, molto probabilmente non avrei mai letto
questo La mente prigioniera se Jan Brokken non avesse posto come epigrafe al suo
splendido Anime baltiche lo stralcio di La mia Europa di
Czesław Miłosz e non lo avesse in seguito citato più e più volte nel corso
della narrazione.
Il
caso (ma davvero ha senso, in questo caso, parlare di “caso”?) ha voluto poi
che, proprio appena completata la rilettura di La mia Europa e la lettura di La mente
prigioniera mi sia messa a rileggere quel libro affascinante
che per me è Vado a vedere se di là è meglio di Francesco M. Cataluccio,
vera e propria ricchissima miniera di informazioni, personaggi, storie,
curiosità sulla cultura dell’Europa orientale con particolare attenzione alla
cultura polacca.
Di
Miłosz, Cataluccio parla spesso, nel suo libro, rivelando tra l’altro anche la
vera identità di uno dei quattro personaggi dei quali in La mente prigioniera viene raccontata la storia;
ma in particolare dedica a lui le pagine 91-103 del capitolo Vilna.
I
libri chiamano altri libri. La mente prigioniera me
ne ha richiamati parecchi, che sarebbe troppo lungo elencare qui, argomentando
anche il perchè.
Chissà, forse a queste evocazioni e
legami intertestuali dedicherò un post successivo. Chissà.
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