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martedì 30 giugno 2020

Lo Sapevate Che: LA MENTE PRIGIONIERA – CZESLAW MILOSZ






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“Quello che cerco di mostrare è come operi il pensiero umano nelle democrazie popolari. E poichè l’ambiente che ho avuto modo di osservare più da vicino è quello degli artisti e degli scrittori, questo libro è soprattutto uno studio su tale ambiente, che a Varsavia come a Budapest, a Praga come a Bucarest ha un ruolo importante.”
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Czesław Miłosz (1911-2004), poeta, romanziere, saggista, traduttore, lituano di cultura polacca, Premio Nobel per la letteratura 1980,visse la tragedia nazista, l’occupazione tedesca della Polonia, e fu testimone oculare della brutalità delle armate di Hitler. Dopo la guerra diventa addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951. Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, in seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia, per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A Berkeley, in California, insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi anche alla traduzione, per diffondere la poesia polacca in ambito anglo-americano e poi europeo.
Tema fondamentale di tutti gli scritti di Miłosz è sempre la salvaguardia della dignità intellettuale dell’uomo. Non per nulla, nella motivazione per l’assegnazione del Nobel si legge: « Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts. » (« A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti. »)
I testi di questo libro, raccolti sotto il titolo La mente prigioniera sono fondamentali per comprendere il suo pensiero.
Nei primi tre capitoli, l’autore racconta l’esperienza dell’occupazione nazista in Polonia e le durezze della guerra nel suo paese: l’ordine delle cose, considerato naturale, viene spezzato da un evento di portata tragica che ribalta tutto quanto prima era scontato.
“In generale l’uomo è incline a considerare naturale l’ordine nel quale vive. […] Quale dei mondi è «naturale»? Quello di prima della guerra o quello durante? «Entrambi lo sono» pensa l’uomo al quale è stato dato di conoscerli entrambi. Non esiste istituzione, usanza o abitudine che non possa subire cambiamenti. Tutto ciò di cui la gente vive le viene dal contesto storico in cui si è venuta a trovare. La fluidità e il mutamento costante sono una caratteristica dei fenomeni, e l’uomo è una creatura così plasmabile che si può anche ipotizzare il giorno in cui attributo del cittadino soddisfatto di sé sarà il camminare a quattro zampe con un ciuffo di piume colorate sul didietro”.
Si passa poi ad approfondire il tema del condizionamento del modo di pensare e di agire in un regime dittatoriale. Cosa utilizza il regime per installare nelle persone “…la paura di pensare per proprio conto…”? La censura e la minaccia, certo, ma anche la messa in atto di dinamiche e meccanismi di condizionamento più sottili ( “Il problema è troppo serio per essere ridotto a una semplice questione di violenza.”)
A Miłosz interessa soprattutto analizzare il comportamento degli intellettuali in genere ma soprattutto quello di “una specie particolare: quella degli intellettuali che si adattano”, ammettendo innanzitutto, con molta sincerità, di essere stato lui stesso, almeno all’inizio, uno di quelli che hanno cercato di adattarsi:
“Io ho fatto parte della categoria probabilmente più numerosa, cioè di coloro che a partire dal momento in cui il loro paese è finito sotto l’egemonia di Mosca si sono sforzati di fare atto di obbedienza e sono stati strumentalizzati dal nuovo regime.”Dice anche, però, di essersi presto reso conto del fatto che “Via via che nelle democrazie popolari la situazione si evolveva, lo spazio di manovra concessomi come scrittore diventava sempre più ristretto”
Miłosz esamina le tecniche – esteriori e interiori – con cui gli intellettuali, spesso volontariamente, si adattavano, accettavano gli insegnamenti più radicali dell’Unione Sovietica, che lui definisce il “Centro”, da cui provengono i dettami di quello che lui chiama “Metodo”, e cioè il marxismo-leninismo o meglio il “marxismo-leninismo in salsa russa”.
Certo, chi non è d’accordo con il regime può (sempre che il regime  glielo consenta) abbandonare tutto ed emigrare. Scegliere l’esilio volontario. Ma si tratta di una scelta difficile e dolorosa che non tutti vivono allo stesso modo, perchè
“Ci sono persone che sopportano bene l’esilio. Altre invece lo sentono come una grande sventura e sono disposte ad andare lontano sulla strada del compromesso pur di non perdere la patria.”
Come sopravvivere, dunque, se non si ha la forza e/o la possibilità di andarsene?
Simulando, mentendo, indossando una maschera. Sempre. Ogni giorno. Ogni minuto di ogni giornata.
Per illustrare questa condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime totalitario e all’unica forma di difesa possibile per l’individuo che si trovi in questa condizione, Czesław  Miłoz ricorre a quello che l’autore chiama Ketman, prendendo a prestito un termine usato da Gobineau in un suo libro sulle religioni e le filosofie nell’Asia Centrale: si tratta in sostanza di aderire solo esteriormente ai dettami della religione (nel caso descritto da Gobineau, l’Islam), professando però interiormente quella che viene considerata la verità, oppressa dalla fede esteriore.
In buona sostanza: il Ketman di cui parla Miłosz (ed a cui dedica un intero lungo capitolo) è l’arte del mascherarsi, del costante mascherarsi, una teatralità quotidiana in cui tutti recitano con tutti e ne sono consapevoli; consiste nel fingere una perfetta identificazione con il ruolo imposto.
Se ci si riesce, questo procura sollievo e permette di allentare la tensione e la vigilanza; significa avere i riflessi giusti al momento giusto, significa un’arte del teatro praticato su scala di massa… Il Ketman è l’arte della dissimulazione, significa riuscire a non esporre la propria persona, riuscire a porre sotto silenzio le proprie più autentiche convinzioni. Miłosz enumera vari tipi di Ketman: quello nazionale (manifestare ad alta voce e di continuo la propria ammirazione per le conquiste della Russia nei vari campi, portare sottobraccio riviste e libri russi, canticchiare canzoni russe, applaudire freneticamente i musicisti e gli attori russi e così via), il Ketman della purezza rivoluzionaria, il Ketman estetico (disprezzare in pubblico le espressioni artistiche considerate borghesi, cosa che l’intellettuale può fare in privato ma solo a condizione che l’attività creativa da lui svolta pubblicamente produca gli effetti propagandistici desiderati). Il Ketman professionale, il Ketman scettico, il Ketman metafisico.
Coloro che gravitano nel mondo della letteratura e dell’arte possono cercare anche di ricorrere a forme di evasione che non facciano correre rischi. Ecco allora scrittori che si sprofondano in testi antichi, commentano e traducono vecchi autori, scrivono volentieri libri per bambini nei quali la fantasia gode di una più ampia libertà. Molti di loro scelgono la carriera universitaria, poichè le ricerche di storia della letteratura offrono un pretesto incontestabile per immergersi nel passato e avere a che fare con opere di grande valore estetico. Si moltiplica anche il numero dei traduttori di poesia e prosa antiche. I pittori cercano uno sbocco ai loro interessi illustrando libri per bambini, poichè la scelta di colori vivi può essere giustificata rifacendosi all’´ ingenua ‘ fantasia infantile’.
“Quanto alla poesia, siccome le sue fonti difficilmente si distinguono da quelle della religione, essa è particolarmente esposta al rischio della persecuzione. Certo il poeta può descrivere le montagne, gli alberi e i fiori. Ma basta che provi di fronte alla natura quel trasporto indefinibile che s’impadronì di Wordsworth durante l’escursione a Tintern Abbey, perchè venga bollato e, in caso di resistenza, scompaia dal mondo della vita letteraria. Questo è un ottimo mezzo per annientare legioni di cattivi poeti che adorano far pubblico sfoggio dei loro voli panteistici, ma lo è anche per annientare la poesia in generale sostituendola con opere che hanno lo stesso valore delle canzoncine-rèclame trasmesse dalla radio negli Stati Uniti.”
Leggendo queste righe, come non pensare a Mandel’stam, alla Achmatova, a tutti quei poeti russi perseguitati e finiti nei gulag staliniani…a tutti gli scrittori di cui ci parla Rachel Polonsky ne La lanterna magica di Molotov i cui libri trova nella biblioteca dell’ex appartamento di Molotov? Gran parte dei loro autori fu lo stesso Molotov a spedirli nei gulag, durante il Grande Terrore…
“Il musicista dovrebbe fare in modo che le sue composizioni siano facilmente traducibili nella lingua dell’agire quotidiano entusiasmo per il lavoro, feste popolari e così via e che non rimanga nulla di difficile da cogliere, vale a dire di sospetto.”
… ed io penso a Shostakovich, con il quale Stalin ha giocato sempre come il gatto con il topo, esaltandolo un giorno elargendogli lodi sperticate, assegnandogli prestigiose onorificenze e gettando nel terrore lui e la sua famiglia il giorno dopo quando gli sembrava che la musica che componeva non fosse abbastanza orecchiabile e popolare…
Per farla breve: il concetto è che è bene tutto quello che serve agli interessi della rivoluzione mentre è male tutto ciò che a tali interessi nuoce.
Chi pratica il Ketman deve mentire, ma paradossalmente, è proprio il Ketman che consente di realizzare se stessi malgrado qualcosa.
Dopo questi capitoli di taglio generale, Miłosz passa a raccontare — a scopo esemplificativo — le vicende di quattro persone, tutti intellettuali – romanzieri o poeti – che chiama, senza meglio precisare i loro veri nomi, AlfaBetaGamma e Delta, i quali, per i più svariati motivi, finiscono per accettare la Nuova Fede e per servire gli scopi del Centro in quella nuova Repubblica Popolare che è la Polonia del dopoguerra. Attraverso queste quattro, emblematiche storie, Miłosz ci fa rivivere da grande narratore tutta un’epoca, le sue contraddizioni, i suoi conflitti.
L’ultimo, bellissimo capitolo del libro è intitolato I popoli baltici in cui Miłosz ripercorre, in una lunga e dolente carrellata, la travagliata storia di EstoniaLettonia e Lituania di cui tra l’altro dice:
“La prima luce che ho visto, il primo profumo di terra e il primo albero che ho conosciuto sono di quei luoghi, perchè è in quelle regioni che sono nato da una famiglia di lingua polacca sulle rive di un fiume dal nome lituano. E quegli avvenimenti sono per me vivi come lo è soltanto ciò che si legge sul volto e negli occhi delle persone che si conoscono bene.”
Miłosz era anche, ricordiamolo, non solo saggista ma anche romanziere e soprattutto grande poeta, e in La mente prigioniera ci sono pagine e pagine in cui la sua arte del narrare avvince e commuove. Non solo quando traccia i ritratti di Alfa, Beta, Gamma, Delta ma soprattutto quando rievoca le tragiche giornate della caduta della Polonia, della guerra e della fallita insurrezione di Varsavia contro i Nazisti mentre l’Armata Rossa, poco lontana, si limitava a guardare senza intervenire.
Miłosz era lì, era nella Varsavia distrutta dal fallimento di un’insurrezione decisa dal governo polacco a Londra, fallimento che costò almeno 200mila morti e la distruzione della città. Le pagine in cui lo scrittore racconta tutto questo sono terribili e difficili da dimenticare.
La mente prigioniera inoltre, indagando su quello che succedeva nelle menti degli intellettuali che “si adattavano” era, considerando l’epoca in cui venne scritto molto, forse anche troppo, in anticipo sui tempi. Gli anni ’50 non erano ancora pronti per comprenderlo appieno ed apprezzarlo.
Leggiamo quello che lo stesso Miłosz  scrive nella Premessa all’edizione italiana scritta a Berkley nel 1981 (i grassetti sono miei):
“Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-52, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù: Stalin. Quei loro compatrioti che, come Albert Camus, osavano affermare che il fondamento stesso di un sistema presumibilmente socialista era in realtà una vasta rete di campi di concentramento, venivano vilipesi e ostracizzati dai loro colleghi. Quando fu pubblicato nel 1953, il mio libro spiacque praticamente a tutti. Gli ammiratori del comunismo sovietico lo giudicavano insultante, mentre gli anticomunisti sostenevano che mancava di una posizione politica chiaramente definita e sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al cuore, un marxista. Un’impresa solitaria, dunque, che però è stata in seguito giustificata dai fatti e che si difende bene dalle critiche di entrambe le parti.”
ed avverte:
“l’argomento del libro è la vulnerabilità della mente, nel nostro secolo, alla seduzione delle dottrine socio-politiche, e la prontezza con cui essa accetta il terrore totalitario in cambio di un futuro ipotetico. Come tale, esso trascende i limiti di luogo e di tempo in quanto esplora le ragioni più profonde dell’odierno desiderio di sicurezza, anche la più illusoria. […] la forza di attrazione esercitata nel mondo dal pensiero totalitario, sia di destra sia di sinistra, non appartiene affatto al passato; al contrario, essa sembra crescere di giorno in giorno.”
Come potrei non essere (tristemente) d’accordo ?
Tutta da leggere, infine, la Prefazione del filosofo tedesco Karl Jaspers che, ricordando quella “servitù dello spirito” negli Stati totalitari sperimentato dai tedeschi all’epoca del nazionalsocialismo definisce la raccolta dei testi contenuta in La mente prigioniera “un documento e al tempo stesso un’interpretazione di prim’ordine” e risulta, scrive ancora Jaspers ” veramente commovente, per noi tedeschi, forse, più ancora che per gli altri popoli occidentali, dato che noi stessi abbiamo vissuto quel che qui è mostrato nella variante polacca. “

Note a margine
Devo soprattutto a Jan Brokken prima e a Francesco M. Cataluccio dopo il desiderio di approfondire il pensiero di questo grande scrittore polacco-lituano, di cui in precedenza avevo letto, è vero, La mia Europa, ma — mi sono resa conto con Brokken e Cataluccio — non ne avevo colto che solo in piccola parte sfumature e implicazioni.
Proprio a causa di quella mia lettura troppo superficiale di La mia Europa, molto probabilmente non avrei mai letto questo La mente prigioniera se Jan Brokken non avesse posto come epigrafe al suo splendido Anime baltiche lo stralcio di La mia Europa di Czesław Miłosz e non lo avesse in seguito citato più e più volte nel corso della narrazione.
Il caso (ma davvero ha senso, in questo caso, parlare di “caso”?) ha voluto poi che, proprio appena completata la rilettura di La mia Europa e la lettura di La mente prigioniera mi sia messa a rileggere quel libro affascinante che per me è Vado a vedere se di là è meglio di Francesco M. Cataluccio, vera e propria ricchissima miniera di informazioni, personaggi, storie, curiosità sulla cultura dell’Europa orientale con particolare attenzione alla cultura polacca.
Di Miłosz, Cataluccio parla spesso, nel suo libro, rivelando tra l’altro anche la vera identità di uno dei quattro personaggi dei quali in La mente prigioniera viene raccontata la storia; ma in particolare dedica a lui le pagine 91-103 del capitolo Vilna.
I libri chiamano altri libri. La mente prigioniera me ne ha richiamati parecchi, che sarebbe troppo lungo elencare qui, argomentando anche il perchè.
Chissà, forse a queste evocazioni e legami intertestuali dedicherò un post successivo. Chissà.

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