Tra il muro-scudo ungherese anti migranti
e gli annunci dei danesi sui quotidiani in lingua araba ("non venite in
Danimarca!"), una sorprendente iniziativa inglese invita a mettersi nei
panni degli altri. Per davvero.
Empatia, questa sconosciuta. Eppure,
comprendere i processi psichici dell'altro o, più semplicemente,
"sentire" che cosa provano gli altri mettendosi - metaforicamente -
nei loro panni è una chiave per vivere meglio con le persone del nostro mondo
e, oggi più che mai, per entrare in contatto con quell'universo di culture che
la globalizzazione dell'economia ha imposto.
Anche con chi "entra in
contatto" in situazioni estreme, com'è il caso dell'imponente ondata
di profughi di questo periodo. «La nostra incapacità di capire
il punto di vista degli altri, le loro esperienze e i loro sentimenti sono alla
base del pregiudizio, del conflitto e della disuguaglianza: l'empatia è
l'antidoto di cui abbiamo bisogno», sostiene l'autore del best seller Emphaty,
l'inglese Roman Krznaric.
Proprio dagli inglesi arriva un originale
invito: sulla riva del Tamigi, una performance - A Mile in My Shoes -
invita a calzare le scarpe di un'altra persona e ad ascoltare la sua vita in
cuffia, interpretando alla lettera il detto (inglese) "prima di giudicare
qualcuno, cammina un miglio con le sue scarpe". Un'esortazione a
esercitare l'empatia senza farsi travolgere dall'emozione.
Laura Boella, docente di Filosofia morale
alla Statale di Milano, lo ha definito con esattezza in una intervista: «La
tesi che emerge dagli studi sui circuiti neuronali sostiene che l'empatia è
un'esperienza molto complessa, non riconducibile solo a una risposta emotiva
automatica. La risposta emotiva è un fuoco di paglia: possiamo essere colpiti
dal dolore di una persona accanto a noi, ma affinché il proprio disagio
diventi attenzione per l'altro è importante l'intervento delle
capacità cognitive, che significa per esempio l'immaginare la vita altrui e
comprenderla. Insomma, bisogna lavorarci un po' su, mettendosi in gioco».
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