Settant'anni
fa la tragedia di Superga che spazzò via la squadra più importante del mondo di
EMANUELE GAMBA
TORINO - Il sole che scintilla su Torino a momenti lascerà il
passo alla pioggia, perché quando s'avvicina il 4 maggio c'è sempre un momento
in cui il cielo diventa implacabilmente livido e d'improvviso cala il buio,
come buio era quel pomeriggio di settant'anni fa quando l'aereo del Grande
Torino - all'epoca, la squadra più importante del mondo - si schiantò contro la
basilica di Superga. Nessuno sopravvisse. Non un giocatore, non uno tra
allenatori medici e massaggiatori, non un membro dell'equipaggio, nessuno dei
tre giornalisti al seguito. Fu la tragedia più tragica che abbia mai colpito il
mondo dello sport, l'unica che abbia raso al suolo una generazione intera di
calciatori, dei migliori calciatori che l'Italia avesse nel dopo guerra, e che
abbia cambiato per sempre la storia del club e della gente che lo ama, che da
allora si porta dentro i due sentimenti che quell'amore alimentano: la rabbia
per la più ingiusta delle ingiustizie possibili e il rispetto della memoria,
romantico e doloroso al tempo stesso. Chi nel '49 c'era, ha un ricordo che gli
gela la colonna vertebrale, più di ogni altro: seppe della notizia perché
qualcuno gli disse, con disperata incredulità, "è morto il Toro".
Nessuno immaginava che una squadra potesse morire.
Torino in questi giorni ha un fermento particolare.
Sono i settant'anni, certo: nelle ricorrenze decennali in genere la
partecipazione s'allarga, è come se ogni anno che finisce in 9 richiamasse il
passato ancora più bruscamente. Ma non è solo questo: è che c'è una nuova
saldatura tra la memoria e il presente, è che il sogno
della Champions (il diritto al sogno è ancora più importante di
quello all'ambizione, per questa gente) ha restituito la fede nell'utopia,
materia di base del popolo granata, è che la squadra ha risfoderato uno spirito
molto in linea con quello che Giovanni Arpino definì "tremendismo
granata" (poca eleganza e molto furore, in estrema sintesi), offrendo un
gioco non spettacolare ma vibrante, come piace a quel pubblico. E poi
c'è il derby, che in origine avrebbe dovuto coincidere proprio con
le celebrazioni di Superga, perché era in calendario il 4 maggio. Quelli del
Torino, a cominciare da Cairo, hanno premuto per spostarlo, invocando la
sacralità di quel giorno, ma forse è stato uno sbaglio: molti tifosi granata,
quelli per i quali il Toro è più un sentimento che una cerimonia, ritenevano
che non ci fosse niente di più sacro di giocare un derby con il cuore in mano,
l'anima in spalla e il massimo della dignità per poi salire a Superga a onorare
le proprie radici. Invece si è preferita la retorica alla grammatica, parlando
di emozioni.
Superga è il colle che domina Torino da est. In cima, la vista spazia fino
alle Alpi e infatti è sempre stato un punto di osservazione strategico, perché
da lì si potevano studiare a distanza le manovre militari di chi tentava
l'assedio alla città. La basilica barocca dello Juvarra, progettata nel 1715,
venne infatti fatta costruire per un voto del duca Vittorio Amedeo di Savoia,
che nel 1706 andò sul colle per valutare l'offensiva dell'esercito
franco-spagnolo. Giurò che, in caso di vittoria, avrebbe edificato un monumento
alla Madonna, e quel monumento fu la basilica. Per i tifosi del Toro è il luogo
del cuore, anche se è contro quei muri che si è consumata l'ingiustizia. Però
per molti il 4 maggio non è solamente un lutto ma anche una sorta di data di
nascita, segna la venuta al mondo del Toro così com'è, con il suo spirito così
particolare, la sua forza di opposizione, l'arzigogolo della retorica e lo
snobismo altero verso la banalità della vittoria. In questi giorni si usa
salire sul colle a piedi (è una camminata di un'ora e mezza, due ore al
massimo), un rito cui vengono sottoposti i bambini, come una sorta di battesimo.
E la lapide che ricorda i caduti, i cui nomi verranno letti a voce alta alle
17.03, l'ora della tragedia, dal capitano Belotti, è ricoperta da sciarpe di
tifosi di squadre di ogni parte del mondo. C'è una maglia di Astori. C'è la
bandiera della Chapecoense, la squadra brasiliana sterminata dall'ultima
tragedia dei cieli, nel 2016. E se i granata giocheranno il derby con la
dignità che i tifosi chiedono, domani pomeriggio la manifestazione sarà
oceanica. E non perché sono settant'anni.
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