La mia sveglia squilla dal lunedì al venerdì alle quattro e
venti del mattino, territorio dei vampiri, degli insonni e dei caloriferi
spenti. L’ora è infame, ma la causa è buona: più di quattro anni fa ho lasciato
il giornalismo finanziario per la radio, attività meno ortodossa, meno
garantita ma che meglio si concilia con me e con l’ambizione di tenere insieme
lavoro e tre figli. Nemmeno per un momento ho rimpianto quel cambio di rotta,
eppure quando l’odioso trillo irrompe nel mio sonno, io mi sento la più
derelitta delle creature e mi domando perché la vita si accanisca con tanta
ferocia contro il mio diritto di riposo. Poi, raggiunto il climax
dell’autocommiserazione visualizzo lui, il buon motivo. Tutti noi, in quell’istante
di passaggio dal grembo tiepido dell’incoscienza all’ingrata fatica della
verticalità, abbiamo bisogno di una degna ragione per uscire dal guscio. Io,
alle quattro e venti della notte (ché chiamarlo mattino è un pietoso
eufemismo), mi alzo dal letto soltanto grazie al pensiero della colazione,
circa cinque ore dopo. Già, perché, a quell’ora lo sguardo è torbido,
l’incarnato terreo, i movimenti lenti e lo stomaco chiuso, eppure la
prospettiva luminosa di quello che sarà dopo mi regala una dose sufficiente di
fiducia nel futuro. E poiché le promesse vanno mantenute, intorno alle nove e
mezza rientro a casa, apparecchio la tavola della mia cucina deserta, faccio
partire un audiolibro e celebro il rito salvifico, a base di una tazza di tè,
otto biscotti e due kiwi, la mia personale, discutibile declinazione della
felicità. Tempo fa l’insegnante di scuola media di uno dei miei figli, prossima
alla pensione, mi disse, in un insolito slancio di intimità: Bisogna trovare
una fragola al giorno, almeno una”. E si augurava, una volta lontana da quel
girone di preadolescenti in sui soleva abitare, di essere ancora capace di
riconoscerla quella quotidiana meraviglia, quel buon motivo per alzarsi ogni
mattina, la perla luccicante tra i sassolini. A volte ci lasciamo travolgere.
Dalla malinconia, dagli affanni, dall’inattività o dall’iperattività,
dall’ansia, dall’idea subdola, crudele e mendace che non ne valga la pena.
Perché, diciamocelo, la vita ogni tanto può essere feroce e dolorosa e allora
bisogna tirare fuori superpoteri e a volte neppure bastano. Ma il più delle
volte scorre incurante, senza accanirsi né accarezzarci. Ci guarda distratta e
spicca, come di troppi cuccioli. “Sono anestesista, passo 12 ore al giorno in
ospedale. Torno a casa stravolta. E cosa trovo? I calzini sporchi dei miei figli.
Sparsi ovunque, per terra. E di fronte a tanta sciatteria, mi avvilisco, penso
che ho sbagliato tutto e urlo”, mi ha raccontato un’amica in una serata di
autocoscienza. Pur estranea ai turni ospedalieri, condivido con lei la piaga
dei pedalini abbandonati, la sciatteria sadica degli adolescenti, la stanchezza
cronica e lo spettro del fallimento educativo. L’empatia prevale e a volte fa
schifo, è dietro l’angolo. Poi penso alle fragole che si nascondono nelle pieghe
di ogni giornata, almeno una, sempre. E penso al nostro dovere di cercarle, con
pervicace ostinazione perché, come dice mia madre, non siamo mica nati per
soffrire. È perché la bellezza è lì per forza, sotto il nostro naso. La fragola
è un sorriso, un messaggio affettuoso, un bambino che fa ciao con la mano, un
libro, la lezione di yoga rubata in pausa pranzo, l’autobus che arriva subito,
la gentilezza, una serie televisiva bellissima, il cioccolato, una civetteria,
l’improvvisa consapevolezza di quello che abbiamo. La fragola è dentro il
nostro sguardo. Dobbiamo solo tirarla fuori.
Claudia de Lillo – Opinioni - Donna di La Repubblica – 12
gennaio 2019 -
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