Lascia che sia fiorito, Signore il suo sentiero. Con questo verso si apre il
primo brano della discografia ufficiale di Fabrizio De André, Preghiera in gennaio. Gennaio è il mese
maledetto, ma al contempo benedetto, della nostra canzone d’autore.
Maledetto perché è il mese del suicidio di Luigi Tenco, a cui Fabrizio aveva
dedicato i versi di Preghiera in gennaio. Circa trent’anni dopo, Fabrizio ci lascerà proprio in quel
mese, e diversi sui fan ri-dedicheranno al proprio beniamino versi della
canzone come «l’inferno
esiste solo per chi non ha sorriso» oppure «Meglio di lui nessuno mai ci potrà indicare / gli errori di noi
tutti, che puoi e vuoi salvare» o ancora «ascolta quella voce che ormai canta nel vento». Benedetto, perché con il suicidio di
Tenco partì, anche grazie a Fabrizio e agli altri genovesi, un movimento in
ascesa che porterà ai livelli alti la categoria della canzone.
A
Fabrizio De André è toccata una sorte particolare, come spesso accade per i
giganti della cultura. Lui, che citando Benedetto Croce, affermava che «fino ai diciott’anni tutti
scrivono poesie, poi le scrivono solo i poeti ed i cretini, per questo
preferisco definirmi cantautore», è stato acclamato già in vita come poeta, ed è stato
consacrato come tale dall’immaginario collettivo, e da una serie di eventi più
o meno culturali, nonché dal suo inserimento alquanto precoce nelle antologie
di poesia per le scuole.
19 anni dopo, Fabrizio De André è ancora presente nella cultura del nostro
paese, sia in quella alta che in quella bassa, incarnando l’anima al contempo
sia elitaria che popolare della cultura pop. I concerti-tributo in suo onore in Italia si moltiplicano a
macchia d’olio ancora oggi, arrivando ad eguagliare (se non a superare) quelli
di rock
star di
fama mondiale, così come si decuplicano le pubblicazioni che tutti gli anni
affollano le librerie, cercando di raccontare nuovi aspetti della sua vita,
della sua poetica, del suo pensiero; inoltre a Fabrizio vengono dedicate sempre
più spesso scuole, vie ed interi eventi, così come progetti scolastici o
umanitari; non da ultimo il figlio Cristiano ha imbracciato chitarra e
pianoforte per cantare in diverse tournée (di cui l’ultima ancora in corso) i brani del padre. Pare
quindi lecito interrogarsi, in questo marasma che assomiglia molto ad una
santificazione, quale sia effettivamente l’eredità culturale di Fabrizio De
André oggi.
La
sua eredità si dipana almeno su due piani, quello formale e quello
contenutistico. Sul piano formale, De André ha dato dignità alta alla canzone come categoria
estetica a sé stante: non poesia, non musica, ma canzone (anzi, qualcuno
direbbe canzone d’autore); questa forma, sviluppatasi nella sua accezione moderna a
partire dalla fine degli anni ’50, ha avuto in De André uno dei suoi più alti
rappresentanti, ancora imbattuto oggi. Canzone però d’autore, perché nei suoi brani De
André ha messo tutto se stesso, tracciando una forte linea di confine con i
parolieri dell’epoca, che scrivevano di argomenti vaghi per piacere a
tutti, linea tracciata dalla sua autobiografia e,
soprattutto, dalla sua visione del mondo, che altrimenti non potevano
trovare spazi. Ecco perché De André è stato il catalizzatore di qualcosa
di nuovo: dai suoi brani si può effettivamente ricostruire un universo di pensiero, un oceano intellettuale,
un cannocchiale con una visione precisa del mondo.
Si
passa così al piano contenutistico, a quello che forse è considerato il pozzo a cui attingere i
più grandi insegnamenti del cantautore genovese. Qui il rischio di
santificazione è immediato, ma va evitato. Per cogliere a fondo il messaggio di
Fabrizio De André è necessario conoscere a fondo le storie della sua vita,
ascoltare le sue parole e, sì, anche ascoltare le sue canzoni, ma
contestualizzandole nelle motivazioni di scrittura. Diventa riduttivo parlare
di Fiume
Sand Creek come
di una canzone pacifista, se si perde di vista la concezione deandreiana del potere
e del suo abuso di violenza, fisica e psicologica; diventa riduttivo parlare
della Buona
Novella come
di una riscrittura atea dei vangeli, se non ci si sofferma sullo spiritualismo,
vago e molto contraddittorio, che ha contraddistinto la vita di Fabrizio;
diventa riduttivo, se non addirittura fuorviante, ergere De André a barriera
dei diritti, qualunque essi siano, se non si colgono a fondo i disagi che hanno
portato Fernañdino a diventare Prinçesa, o se non si coglie il bisogno di libertà di coloro che «sanno leggere il libro del
mondo con parole cangianti e nessuna scrittura», entrambi dipinti dalla
penna di Fabrizio con una toccante umanità.
La complessità di Fabrizio De Andrè
deve rifuggire da qualunque stereotipizzazione, purtroppo tipica della frammentaria
cultura odierna. L’eredità di Faber si può cogliere quindi con una vera immersione
nel suo mondo, anche a costo di una semplificazione, quando necessario, ma mai
di una riduzione e stereotipo del suo ruolo e del suo pensiero, che sarebbe un
danno più grave dell’oblio. Solo così si potrà cogliere l’eredità di un gigante, e, senza paura di vedere
solcare il viso da qualche lacrima, sussurrare: «io mi dico: è stato meglio
lasciarci, che non esserci mai incontrati».
Ciao Faber
Biografia • All'ombra dell'ultimo sole
Fabrizio De André nasce il 18 febbraio 1940 a Genova
(Pegli) in Via De Nicolay 12 da Luisa Amerio e Giuseppe De André, professore in
alcuni istituti privati da lui diretti.
Nella primavera del 1941 il professor De André,
antifascista, visto l'aggravarsi della situazione a causa della guerra, si reca
nell'Astigiano alla ricerca di un cascinale ove far rifugiare i propri
familiari e acquista nei pressi di Revignano d'Asti, in strada Calunga, la
Cascina dell'Orto ove Fabrizio trascorre parte della propria infanzia con la
madre e il fratello Mauro, maggiore di quattro anni.
Qui il piccolo "Bicio" - come viene
soprannominato - impara a conoscere tutti gli aspetti della vita contadina,
integrandosi con le persone del luogo e facendosi benvolere dalle stesse. E'
proprio in tale contesto che cominciano a manifestare i primi segni di
interesse per la musica: un giorno la madre lo trova in piedi su una sedia, con
la radio accesa, intento a dirigere un brano sinfonico a mò di direttore
d'orchestra. In effetti, la leggenda narra che si trattasse del "Valzer
campestre" del celebre direttore d'orchestra e compositore Gino Marinuzzi,
dal quale, oltre venticinque anni dopo, Fabrizio trarrà ispirazione per la
canzone "Valzer per un amore".
Nel 1945 la famiglia De André torna a Genova,
stabilendosi nel nuovo appartamento di Via Trieste 8. Nell'ottobre del 1946 il
piccolo Fabrizio viene iscritto alla scuola elementare presso l'Istituto delle
suore Marcelline (da lui ribattezzate "porcelline") dove inizia a
manifestare il suo temperamento ribelle e anticonformista. Gli espliciti
segnali di insofferenza alla disciplina da parte del figlio inducono in seguito
i coniugi De André a ritirarlo dalla struttura privata per iscriverlo in una
scuola statale, l'Armando Diaz. Nel 1948,
constatata la particolare predisposizione del figlio, i genitori di Fabrizio,
estimatori di musica classica, decidono di fargli studiare il violino
affidandolo alle mani del maestro Gatti, il quale individua subito il talento
del giovane allievo.
Nel '51 De André inizia la frequentazione della scuola
media Giovanni Pascoli ma una
sua bocciatura, in seconda, fa infuriare il padre in maniera tale che lo demanda,
per l'educazione, ai severissimi gesuiti dell'Arecco. Finirà poi le medie al Palazzi. Nel 1954, sul piano
musicale, affronta anche lo studio della chitarra con il
maestro colombiano Alex Giraldo.
E'dell'anno dopo la prima esibizione in pubblico a uno
spettacolo di beneficenza organizzato al Teatro Carlo Felice dall'Auxilium di Genova. Il suo primo gruppo suona genere country e
western, girando per club privati e feste ma Fabrizio si avvicina poco dopo
alla musica jazz e, nel '56, scopre la canzone francese nonchè quella
trobadorica medievale.
Di ritorno dalla Francia il padre gli porta in regalo
due 78 giri di Georges Brassensdel quale il
musicista in erba inizia a tradurne alcuni testi. Seguono gli studi ginnasiali,
liceali ed infine universitari (facoltà di giurisprudenza), interrotti a sei
esami dalla fine. Il suo primo disco esce nel '58 (l'ormai dimenticato singolo
"Nuvole barocche"), seguito da altri episodi a 45 giri, ma la svolta artistica matura diversi anni dopo,
quando Mina gli incide "La Canzone di Marinella",
che si trasforma in un grande successo.
Tra i suoi amici di allora ci sono Gino Paoli, Luigi Tenco, Paolo Villaggio. Nel 1962
sposa Enrica Rignon e nasce il figlio Cristiano.
Sono i modelli americani e francesi del tempo a
stregare il giovane cantautore che s'accompagna con la chitarra acustica,
che si batte contro l'ipocrisia bigotta e le convenzioni borghesi imperanti, in
brani diventati poi storici come "La Guerra di Piero", "Bocca di
Rosa", "Via del Campo". Seguirono altri album, accolti con
entusiasmo da un pugno di cultori ma passati sotto silenzio dalla critica. Così
come la stessa sorte segnò album stupendi come "La buona novella"
(del 1970, una rilettura dei vangeli apocrifi), e "Non al denaro né
all'amore nè al cielo", l'adattamento dell'Antologia di Spoon River,
firmato insieme con Fernanda Pivano, senza dimenticare
"Storia di un impiegato" profondo lavoro di marca pacifista.
Solo dal 1975 De André, schivo e taciturno, accetta di
esibirsi in tour. Nel 1977 nasce Luvi, la seconda figlia dalla compagna Dori Ghezzi. Proprio la
bionda cantante e De André vengono rapiti dall'anonima sarda, nella loro villa
di Tempio Pausania nel 1979. Il sequestro dura quattro mesi e porta alla
realizzazione dell'"Indiano" nel 1981 dove la cultura sarda dei
pastori viene accostata a quella dei nativi d'America. La consacrazione
internazionale arriva con "Creuza de ma", nel 1984 dove il dialetto
ligure e l'atmosfera sonora mediterranea raccontano odori, personaggi e storie di porto. Il disco segna una pietra miliare per
l'allora nascente world music italiana ed e' premiato dalla critica come
miglior album dell'anno e del decennio.
. Nel 1988 sposa la compagna Dori Ghezzi, e nel 1989
intraprende una collaborazione con Ivano Fossati (da cui nascono brani come "Questi posti davanti al mare").
Nel 1990 pubblica "Le nuvole", grande successo di vendite e di
critica, che è accompagnato da un tour trionfale. Segue l'album live del '91 e
il tour teatrale del 1992, poi un silenzio di quattro anni, interrotto solo nel
1996, quando torna sul mercato discografico con "Anime Salve", altro
disco molto amato dalla critica e dal pubblico.
L'11 gennaio 1999 Fabrizio De André muore a Milano,
stroncato da un male incurabile. I suoi funerali si svolgono il 13 gennaio a
Genova alla presenza di oltre diecimila
https://biografieonline.it/biografia-fabrizio-de-andrepersone.
https://biografieonline.it/biografia-fabrizio-de-andre
C’è sempre qualcosa di estremamente
affascinante nell’osservare la consacrazione pop post-mortem di
un grande personaggio. Uomini che fino ad un attimo prima risultavano essere
solo fantasmi di un passato lontano per la maggior parte delle persone vengono
improvvisamente innalzati agli altari popolari e tutti ne piangono la mancanza,
tutti improvvisamente ne provano nostalgia. Questo è accaduto recentemente
anche a Fabrizio De André, di cui oggi si ricorda il compleanno (18
febbraio 1940). Complice di ciò lo sceneggiato Rai andato in onda questa
settimana (13-14 febbraio), Fabrizio De Andrè, principe libero (guarda su RaiPlay), che tratta in forma romanzata la
biografia del cantautore. Consacrato così alla cultura nazional-popolare Faber
è ora sulla bocca di tutti con il volto di Luca Marinelli (le
cui doti recitative rimangono indubbiamente eccellenti) e con una certa leggerezza
da biopic da prima serata televisiva, pregna di romanticismo e riscatto
morale finale.
La polemica nasce da un’osservazione
di fondo imprescindibile: per conoscere De André non basta una
ricostruzione cinematografica imborghesita. Bisogna ascoltare la sua
musica, leggerne e rileggerne le parole, sentirne il tormento e
lo slancio vitale, abbracciarne il grido anarchico e
chiedersene il perché. Non a caso Faber odiava apparire in pubblico ed in
particolare in televisione: era tramite la sua voce e le sue melodie che
comunicava tutto ciò che c’era da comunicare. Lo schermo pone un filtro e
soprattutto mitifica la persona: Fabrizio non voleva essere un mito, ma
un cantastorie. Con il suo volto lontano dagli occhi, erano le parole a dover
creare immagini stimolando l’immaginazione di chi ascolta.
Davanti a tanto bisogno di ricordare
e a tanta sentita partecipazione sorge tuttavia spontanea una
riflessione: De André manca a tutti, sia a coloro che ne sono sempre
stati appassionati, sia a chi si avvicina a lui ora per la prima volta. Da
cosa nasce questa nostalgia? Innegabile il fatto che una figura che ha così
influenzato la storia della musica, ma anche della cultura, rimanga nel ricordo
come un imprescindibile e continui a vivere tramite la sua arte nella
quotidianità. La mancanza cela però qualcosa di ancora più profondo: avremmo
bisogno di un nostro De André e non lo troviamo.
La grandezza di Faber era nella sua
costante ricerca di realtà e concretezza. Nato da una famiglia borghese, ha
sempre provato fastidio per la sua condizione di privilegiato, ribellandosi
alle convenzioni sociali e morali e cercando verità ed autenticità tra le
sozzure e le bassezze della Città Vecchia. Anarchico non
tanto per ribellione politica quanto sociale e culturale, De André cercava il
suo Cristo negli uomini e il senso della vita in una poesia che fosse
tangibile.
Fare musica
per Fabrizio significava fare ricerca: i suoi sono quasi
sempre concept album, che narrano storie e possiedono la
forza dell’ideale. Ogni suo brano ed album ha una portata di novità sia
dal punto di vista armonico che per la costruzione del testo. Come non
ricordare la produzione dialettale impregnata di tradizione folklorica (Crêuza
de mä), la creazione di un suo personale Vangelo nella Buona
Novella, la rilettura dell’Antologia di Spoon River in Non
al denaro, né all’amore, né al cielo?
Ogni storia
cantata da De André sa di uomo. I brani auto-biografici sono pochissimi (Giugno
’73, Preghiera in Gennaio) ed infatti la tendenza del
cantautore è quella di non raccontare la sua vita ma quella degli altri, in cui
però anche lui, così come chi ascolta, possa riconoscersi. Le idee, le
emozioni, le spinte di Faber sono evidenti e aleggiano in ogni brano,
grazie alla capacità di elevare la concretezza dei quadri narrati
all’universale. È questo che ci manca di Fabrizio, è questo che ci
manca della sua musica.
De André e i nostri cantautori indie
Per quanto
oggi il panorama musicale pulluli di cantautori, sembra a tratti che questi
ignorino l’insegnamento dei grandi del passato. Il genere indie spopola
e vanta, a partire dall’etichetta stessa, la sua indipendenza; eppure dopo
un paio di canzonette rimane il vuoto. Ed è allora che si volge lo sguardo
indietro e si cerca Faber.
A volte
verrebbe da chiedersi cosa avrebbe pensato De André del panorama
musicale e culturale contemporaneo. Probabilmente avrebbe schifato l’immobilismo
socio-politico, l’assenza di ribellione, la frenesia globale, la morte
del ciclo delle stagioni e soprattutto della fantasia.
Probabilmente sarebbe inorridito davanti alla comunicazione social in
parole stringate e urlate al mondo senza più la dignità della sofferenza vera.
Sicuramente avrebbe chiesto ai vari Lo Stato Sociale, TheGiornalisti, i
Cani se pensino che la loro musica sopravvivrà all’hic et
nunc da cui scaturisce e in cui muore. Si sarebbe poi quasi certamente
ritirato in un borgo, uno dei pochi ancora sopravvissuti, e avrebbe impugnato
la chitarra e raccontato la storia del paese con le sue proprie sonorità, da
ballo e festa, senza synth ed effetti da loop station,
con voce profonda e musica folklorica.
Ecco perché
Faber ci manca: c’è in
noi, per quanto recondito, il desiderio di un’arte che sopravviva
all’immediato e che ci sveli quel che di noi può sopravvivere anche
domani. Le parole e le musiche di De André scavano nella pietra della
tradizione e raccontano storie di ieri che sono anche di oggi: siamo tutti il
suonatore Jones, siamo tutti Marinella, siamo tutti il Pescatore e Dolcenera ed
abbiamo il desiderio di muoverci in direzione ostinata e contraria.
https://www.frammentirivista.it/l
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