Il 5 gennaio
avrebbe compiuto 86 anni, invece Umberto Eco ci ha lasciato ormai da quasi due
e se ne sente la mancanza (Paolo Armelli)
Celebre al grande pubblico per i suoi romanzi, fra cui Il nome della
rosa (1980), Il pendolo di Foucault (1988) e Il
cimitero di Praga (2010), fu anche autore di una sterminata produzione
saggistica, oltre a svariati progetti che tentavano di dare un nuovo e
contemporaneo senso all’enciclopedismo medievale. Tutto era connesso, sosteneva
Eco, nella conoscenza e soprattutto nel linguaggio: niente è troppo
alto o troppo basso se si hanno strumenti abbastanza attrezzati per decifrarlo
e comprenderlo.
Ecco quindi che le sue opere letterarie ci lasciano anche oggi alcuni insegnamenti fondamentali, fra l’intellettuale e il quotidiano.La Duchessa Brutta — Quentin Massys, 1513 (immagine) (galleria)
Ecco quindi che le sue opere letterarie ci lasciano anche oggi alcuni insegnamenti fondamentali, fra l’intellettuale e il quotidiano.La Duchessa Brutta — Quentin Massys, 1513 (immagine) (galleria)
Brutto è bello
Fra il 2004 e il 2007 Eco dedica
la sua attenzione e la sua interpretazione alla storia dell’arte, con due
volumi, Storia della bellezza e Storia della bruttezza,
che appunto analizzano quadri, statue e altre opere attraverso una lente antitetica:
«Il più delle volte si è definito il brutto in opposizione al bello ma a esso
non sono state quasi mai dedicate trattazioni distese, bensì accenni
parentetici e marginali».
Leggendo la selezione di Eco, però, ci si accorge che il brutto non solo è una categoria estetica a sé, con le proprie caratteristiche e le proprie peculiarità, ma è anche una categoria di senso, un modo per definire il mondo e il significato non solo in opposizione all’estetica dominante e popolare, ma anche come originale e compiuto sistema di valori indipendenti. E se guardiamo alle avanguardie storiche, che sempre hanno funzionato rompendo i canoni artistici vigenti, o a categorie contemporanee come il kitsch o il camp, ci accorgiamo che il brutto è un motore fondamentale non solo dell’arte ma anche della nostra vita.
Leggendo la selezione di Eco, però, ci si accorge che il brutto non solo è una categoria estetica a sé, con le proprie caratteristiche e le proprie peculiarità, ma è anche una categoria di senso, un modo per definire il mondo e il significato non solo in opposizione all’estetica dominante e popolare, ma anche come originale e compiuto sistema di valori indipendenti. E se guardiamo alle avanguardie storiche, che sempre hanno funzionato rompendo i canoni artistici vigenti, o a categorie contemporanee come il kitsch o il camp, ci accorgiamo che il brutto è un motore fondamentale non solo dell’arte ma anche della nostra vita.
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Mike Bongiorno è una cosa seria
Già intellettuale impegnato e
affermato, nel 1963 Eco stupì tutti con la pubblicazione di Diario
Minimo, raccolta di piccoli saggi e interventi giornalistici. In uno di
questi scritti, Fenomenologia di Mike Bongiorno, metteva i propri
strumenti semiotici all’opera non su un testo letterario o un fenomeno
editoriale, ma sul popolare presentatore televisivo. Tanto che in molti
considerano quel saggio come la nascita di una vera e propria critica
letteraria in Italia.
Analizzando il linguaggio e i modi di dire di Bongiorno, ma anche il suo
abbigliamento e in generale il modo di porsi di fronte alla telecamera (oltre
alle sue famosissime gaffe), Eco carpisce il segreto più profondo del suo
successo: il «valore della mediocrità». Adeguandosi in tutto e per tutto nella
direzione degli spettatori, Bongiorno «rappresenta un ideale che nessuno deve
sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Lo
stesso conduttore fu molto colpito dal saggio, che contribuì a scolpirne ancora
di più il ruolo nel nostro immaginario collettivo.
Attenti al web e non
sottovalutate i libri
Negli ultimi anni Umberto Eco si
distinse soprattutto per alcune dichiarazioni pubbliche volutamente forti: «I
social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano
solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività»,
disse nel corso di una lectio magistralis nel 2016 all’Università
di Torino. La sua posizione fu spesso criticata, soprattutto da coloro che più
strenuamente difendono la libertà di parola o le potenzialità di internet, ma
fu anche molto lodata da chi teme coloro che «ora hanno lo stesso diritto di
parola di un Premio Nobel».
La posizione di Eco è comunque
provocatoria sull’abuso che si fanno di certi strumenti digitali, ma d’altra
parte si disse lui stesso un «utente compulsivo» di Wikipedia. Nel 2009 scrisse
anche Non sperate di liberarvi dei libri, un pamphlet scritto con Jean-Claude
Carrière in cui sosteneva che il formato cartaceo e culturale del libro sarebbe
sopravvissuto ancora per secoli: «Prova a leggere un testo che avevi salvato su
un floppy disk qualche decina di anni fa…», disse una volta in un’intervista.
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Non si è mai troppo anziani,
passati di moda o pazzi per buttarsi in nuove avventure. Nel 2015, ad esempio,
avveniva la fusione che portò alla concentrazione in un unico colosso editoriale
delle case editrici controllate da Mondadori e di quelle controllate da
Rizzoli, fra cui Bompiani (in realtà ora venduta a Giunti). Eco, una delle
firme più prestigiose di quel marchio, decise di seguire la direttrice
editoriale Elisabetta Sgarbi in una nuova avventura indipendente, quella de La
nave di Teseo.
Commentando l’azzardo di questa avventura, Eco rifiutò l’etichetta di
velleitario: «Peggio, siamo pazzi». E ribadì una vivacità culturale che
dovrebbe essere tipica di ogni età: «Un nuovo progetto è l'unica alternativa
alla Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro l'Alzheimer».
Il nome della rosa fu il primo e forse il più conosciuto dei
romanzi di Eco: uscito nel 1980, divenne subito popolarissimo grazie al mix di
ambientazione medievale e di struttura alla Sherlock Holmes. Il monaco
Guglielmo da Baskerville, infatti, è chiamato in un monastero benedettino per
indagare su alcune misteriose morti che vi stanno avvenendo. Fra ambiguità
monastiche e Inquisizione, il fulcro della vicenda sarà una nozione puramente
aristotelica, quello della risata come soluzione ai problemi della vita.
Nel 1986 ne fecero un celeberrimo film con Sean Connery, e presto anche la Rai ne produrrà una serie tv. Nel frattempo bisogna tenere ben a mente qual è la morale più forte di tutta la storia: quando si legge non bisogna mai far scorrere le pagine leccandosi la punta delle dita. Se avete letto il libro, sapete bene il venefico motivo.
Nel 1986 ne fecero un celeberrimo film con Sean Connery, e presto anche la Rai ne produrrà una serie tv. Nel frattempo bisogna tenere ben a mente qual è la morale più forte di tutta la storia: quando si legge non bisogna mai far scorrere le pagine leccandosi la punta delle dita. Se avete letto il libro, sapete bene il venefico motivo.
Tradurre
significa compensare
Nel 1983 Eco è l’autore
della traduzione italiana degli Esercizi di
stile del francese Raymond
Queneau: uno stesso banale episodio viene raccontato per 99 volte, ogni volta
cambiando lo stile o il gioco linguistico utilizzato. Per tutta la sua vita il
semiologo italiano diede grandissima importanza al tema della traduzione,
considerato un inestimabile strumento di comprensione e approfondimento.
Fondamentale a questo riguardo è la sua raccolta di saggi del 2003, Dire quasi la stessa cosa.
Il titolo deriva proprio dal fatto che, secondo Eco, tradurre significa portare un testo da una lingua all’altra, ma nel “viaggio” qualcosa si perde sempre. Entrano in gioco allora le compensazioni, cioè degli accorgimenti che rispondono alla perdita di alcuni elementi con l’introduzione di altri che riavvicinano al testo di partenza. Ma è proprio questa attenta analisi dell’opera originale che permette un approfondimento che è una fondamentale mediazione culturale. Avvicinarsi all’altro, allo straniero, significa sempre sforzarsi di capire.
Il titolo deriva proprio dal fatto che, secondo Eco, tradurre significa portare un testo da una lingua all’altra, ma nel “viaggio” qualcosa si perde sempre. Entrano in gioco allora le compensazioni, cioè degli accorgimenti che rispondono alla perdita di alcuni elementi con l’introduzione di altri che riavvicinano al testo di partenza. Ma è proprio questa attenta analisi dell’opera originale che permette un approfondimento che è una fondamentale mediazione culturale. Avvicinarsi all’altro, allo straniero, significa sempre sforzarsi di capire.
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Fare una tesi di
laurea è questione di organizzazione
Se vi siete laureati negli
ultimi venti o trent’anni è probabile che il vostro relatore vi abbia
consigliato di leggere Come si fa una tesi di
laurea. Scritto da Eco nel 1977
come supporto in primis ai suoi studenti, è diventato poi un punto di
riferimento per tutti coloro che si apprestano a scrivere una relazione in
vista della laurea. Anche se per certi versi oggi alcuni passaggi risultano
obsoleti (si parla di macchine da scrivere e schedari negli archivi),
l’impianto generale è ancora utilissimo.
In particolare perché Eco suggerisce l’ingrediente fondamentale: l’organizzazione. Schede, liste, riassunti, bibliografie: sono tutti strumenti essenziali per scandire il lavoro e procedere più speditamente e a mente più lucida. Inoltre il caro Umberto Eco è anche un ottimo motivatore, non facendo mai perdere la speranza anche quando il lavoro di ricerca sembra senza speranze: «A lavorare bene, non c'è nessun argomento che sia veramente stupido: a lavorare bene si traggono conclusioni utili anche da un argomento apparentemente remoto o periferico».
In particolare perché Eco suggerisce l’ingrediente fondamentale: l’organizzazione. Schede, liste, riassunti, bibliografie: sono tutti strumenti essenziali per scandire il lavoro e procedere più speditamente e a mente più lucida. Inoltre il caro Umberto Eco è anche un ottimo motivatore, non facendo mai perdere la speranza anche quando il lavoro di ricerca sembra senza speranze: «A lavorare bene, non c'è nessun argomento che sia veramente stupido: a lavorare bene si traggono conclusioni utili anche da un argomento apparentemente remoto o periferico».
Solo gli stronzi
usano parole volgari
Semiologia, disciplina di
cui Eco fu sommo maestro, significa studio dei segni, ovvero di quegli elementi
che trasmettono un preciso significato: la forma e il suo contenuto sono
interconnessi in questo ambito in modo indissolubile e, più in generale, nelle
opere dello studioso. Eco era fortemente convinto che il linguaggio fosse
l’espressione più profonda del sé e della comprensione del mondo, dunque chi si
esprime male è tagliato sostanzialmente fuori da questa comprensione.
Ecco il motivo per il quale, nel pubblicare nel 1999 La bustina di Minerva, raccolta delle rubriche che per anni tenne su L’Espresso, Eco aggiunse una specie di fondamentale decalogo di buona espressione. Sfruttando l’ironia e il paradosso, lo scrittore indicava delle regole fondamentali, come «Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata» o «Non generalizzare mai». E via così con indicazioni su virgole, accenti, parentesi, parole straniere ecc. Il tutto a significare che oltre alle regole c’è la libertà espressiva. E che bisogna sempre fare attenzione alla forma, oltre al significato: «Solo gli stronzi usano parole volgari».
Ecco il motivo per il quale, nel pubblicare nel 1999 La bustina di Minerva, raccolta delle rubriche che per anni tenne su L’Espresso, Eco aggiunse una specie di fondamentale decalogo di buona espressione. Sfruttando l’ironia e il paradosso, lo scrittore indicava delle regole fondamentali, come «Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata» o «Non generalizzare mai». E via così con indicazioni su virgole, accenti, parentesi, parole straniere ecc. Il tutto a significare che oltre alle regole c’è la libertà espressiva. E che bisogna sempre fare attenzione alla forma, oltre al significato: «Solo gli stronzi usano parole volgari».
Paolo Armelli - Freelance contributor,
scrive di libri e cultura pop. – real time
www.realtime.it/magazine/cultura/2017/umberto-eco-lezioni-insegnamenti-preziosi-oggi
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