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venerdì 11 gennaio 2019

Lo Sapevate Che: Mangiare con la cultura. Una conversazione con Paola Dubini di Maria Elena Colombo


 Ragionare di cultura oggi….?
·        Un accento molto importante nel libro è legato alle competenze in materia di innovazione e tecnologia….. Questa resistenza non rischia di rendere sterili alcuni percorsi di studio….?

Come salvare i contributi che potrebbero essere di nicchia, ma che magari contengono grandi messaggi….?

Esperienze che però provengono sempre da stelle polari autonome, da piccole formazioni extra istituzionali e da profili che si sono ibridati per storia personale.
Anche secondo te è questo il panorama…?
Questo mi riporta a una riflessione sui livelli di retribuzione dei lavori culturali. La cifra che indichi tu come media, intorno ai 1.300 euro al mese…. Come ci si può procurare l’aggiornamento continuo necessario, con queste cifre? Il sistema paese non è doloso in questo caso….?

·        Perché non pensare a defiscalizzare il lavoro culturale?... Perché non detassare il lavoro allora evitando una partita di giro…?
·         
 È l’esistenza del mercato dell’arte contemporanea che li rende diversi…?

È uscito il 18 ottobre per la collana Idòla di Laterza, Con la cultura non si mangia (Falso!), di Paola Dubini.
Con l’intenzione di mettere in discussione gli stereotipi più diffusi a riguardo, 
Paola Dubini accosta con rigore temi come l’innovazione, la tecnologia, l’ibridazione e il meticciato, la nicchia e le élite e la mancata attenzione al dato in ambito culturale. Una gradevolissima bibliografia narrata chiude il volumetto, lasciandoci con qualche domanda.
Ho provato a porne qualcuna.


Con la cultura [non] si mangia? Falso
Sabato 17 novembre alle 15.30 alla Borsa Italiana, nell’ambito di BookCity Milano, Bertram Niessen partecipa all’incontro #Investire in titoli Con la cultura [non] si mangia? insieme a Paola Dubini, Sara Zambotti, Massimo Cirri e Andrea Amichetti.

Ragionare di cultura oggi non significa anche domandarsi se i percorsi di formazione – specialmente quelli accademici e in particolare umanistici – non debbano rivedere la loro intenzione?

Cominciamo con un domandone. Probabilmente sì, ma in quale senso?
C’è un problema di fondo: la produzione culturale è fatta ancora in buona parte di sommatorie e meticciati di competenze nate come molto profonde e molto verticali. Queste, pur formatesi in una logica verticale e profonda, si contaminano, si fondono nella pratica a generare la produzione culturale.
Uno dei motivi per cui lo dico è che quando non volgiamo un certo sguardo alla cultura è chi fa il lavoro culturale a farne le spese, e questo è legato proprio a quello che dici tu. Ne fa le spese anche chi studia di cultura e continua ad aver bisogno di profondità, ma al tempo stesso ha sempre più bisogno della dimensione della contaminazione. La zona franca della produzione culturale in quanto produzione culturale è sempre più ridotta perché entra in contatto con le logiche di mercato. È per questo che se io mi sto formando alla produzione culturale, oltre a conoscere la mia disciplina devo anche sapere qualcosa di gestione e di tecnologie.
Quindi sì, siamo partiti a freddo su un tema grosso che ha a che fare con le implicazioni sulle politiche educative.
Un accento molto importante nel libro è legato alle competenze in materia di innovazione e tecnologia: è del tutto trasversale in quanto strumento, ma pare che ancora negli studi umanistici ci sia una sorta di resistenza preconcetta a riguardo. Questa resistenza non rischia di rendere sterili alcuni percorsi di studio?

Sì, certo. Ma è un problema che si riscontra non solo nelle discipline umanistiche ma anche nel management e nelle discipline scientifiche. Per un verso la complessità è tale che c’è sempre più bisogno di una conoscenza verticale profonda e, di sicuro, alcuni meccanismi incentivanti relativi ai percorsi accademici si muovono in quella direzione. Non c’è nulla di più difficile che fare carriera accademica con una logica transdisciplinare.
Però, dato che l’ibridazione e il meticciato sono necessari, sono consegnati alla dimensione delle pratiche, e questo obbliga ad orientare lo sguardo e a fare lo sforzo di includere alcune competenze. La formazione di tipo trasversale, esclusivamente di mediazione, è povera. Studiamo “Comunicazione”, ma di cosa? Svuotato di contenuto, l’insegnamento perde spessore. Da un lato, l’allenamento trasversale alla mediazione e basta non è sufficiente, dall’altro la verticalizzazione rischia di lasciarti fuori.
La tecnologia complica molto le cose. L’altro giorno parlavo con qualcuno che attribuiva ad Amazon la responsabilità di favorire il populismo nel consumo culturale. È vero: se io misuro tutto con algoritmi di fatto partecipo a un progetto di omologazione e autoreferenzialità via via crescente. A chi affidiamo il ruolo di avere spirito critico?
  
Torniamo quindi alla prima domanda, al tema della formazione. Come salvare i contributi che potrebbero essere di nicchia, ma che magari contengono grandi messaggi?

Dobbiamo stare attenti alle nicchie perché il confine fra nicchia e loculo è labile. Nella nicchia non esiste la massa critica per avere sostenibilità in tanti sensi: ricaduta, autoreferenzialità…
Le nicchie non si possono trascurare perché i mercati culturali sono in tanti casi l’esito di sommatorie di nicchie, se guardiamo solo ai best seller e ai titoloni creiamo le condizioni perché i mercati culturali muoiano. Le nicchie sono importantissime perché sono i DNA della cultura. Però dobbiamo essere consapevoli che quello che dà da mangiare in termini di capacità di costruire immaginari collettivi deve avere potenziale di ricaduta e diffusione ampi.
Abbiamo bisogno di essere permeabili fra la nicchia e il mercato più vasto: non avere paura di constatare che la cultura è fatta in offerta e domanda di nicchie, ma ciascun operatore deve rispondere alla domanda: qual è la massa critica minima perché io sia abbastanza visibile, permeabile, inclusivo, e quindi rilevante?
È molto complesso. Si riesce ad essere inclusivi solo “al bordo”. La cosa bella della cultura è che le cose interessanti succedono proprio lì, non tanto lontano, ma ai bordi. Un esempio è il fumetto che diventa graphic novel, che non è romanzo, che non è racconto. L’ibrido che innova e include.  Quando voglio includere devo cominciare a incidere su chi è un po’ distante, ma non troppo.
È un po’ come, in campo storico artistico, pensare alla diffusione di modelli e innovazione tra centri e periferie.
In ogni caso è importante anche la dimensione diacronica: più potente è l’innovazione più tempo sarà necessario perché diventi pervasiva e venga accolta a livello di istituzioni culturali con i processi e i cambiamenti che richiede. Questo passaggio si incrocia con i destini individuali: in questo paese estremamente conservativo – salvo alcune eccellenze – dal punto di vista dell’offerta formativa, c’è un portato di esperienze, pensieri e critica molto innovativo in ambiente culturale, mi pare.
Esperienze che però provengono sempre da stelle polari autonome, da piccole formazioni extra istituzionali e da profili che si sono ibridati per storia personale.
Anche secondo te è questo il panorama?

Sì, ma mi stupisce fino a un certo punto. Anche nel mondo delle imprese l’innovazione non si sviluppa all’interno dei settori ma fuori. Facebook, Google, Amazon erano dei “new comers” rispetto ai settori. Poi si sono consolidati, hanno gemmato un sacco di opportunità imprenditoriali, alcune fortunate, altre meno, e a quel punto le imprese consolidate dei legacy media hanno ricombinato la loro offerta.
Non è detto che chi c’era prima sia destinato a morire, si veda ad esempio Disney: basta saper cambiare. Il fatto che l’innovatore sia esterno è un tema cavalcato da tutta la letteratura di management. In questo senso si anticipa anche il bisogno di ripensare il sistema formativo: sul piano individuale c’è la scelta dell’omologazione o del rifiuto. I fondatori di Google hanno lasciato Stanford e l’opzione Phd per prendere altre strade (ma un inizio di formazione è avvenuto lì).

Ha ancora un prezzo molto alto stare sul bordo del mondo culturale a titolo personale. Fare mille lavoretti e rassegnarsi a una “decorosa miseria”, come la chiami tu, è frequente. Raggiunta una certa maturità ci sono mestieri nei quali si è quello che si fa, e non è un processo reversibile.

Sì, senz’altro. Ma si può leggere su un piano individuale e su un piano organizzativo, e questo mi riporta alla riflessione sulla nicchia e il loculo. Perché è importante guardare anche in una prospettiva di sostenibilità e di continuità in questa attività? Perché altrimenti muori. L’energia che si spreca nel fare mille lavoretti per sbarcare il lunario è equivalente allo sforzo che un’organizzazione fa per concorrere e partecipare a cinquemila banderelli sperando di raccogliere qualche euro e sopravvivere. La cosa difficile è mettersi in una prospettiva aziendale nel senso di prendersi la responsabilità della continuità.
Questo inevitabilmente porta alla responsabilità collettiva in merito alla valutazione di quale sia la massa critica: è responsabilità del singolo che deve capire come arrivare a fine mese, della organizzazione culturale, ma anche del ministero o dell’assessore alla cultura che a un certo punto deve farsi carico della responsabilità di essere correo nel far chiudere, o crescere, un’organizzazione.
Se elargire ogni anno il 3% di meno porta la povera organizzazione culturale ad essere come la rana nell’acqua calda che si scalda sempre di più e a un certo punto muore, ecco: è responsabilità della rana saltare fuori dall’acqua, ma è responsabilità del finanziatore decidere di fare una selezione a priori e compiere una scelta di campo in merito a chi dare, davvero, un finanziamento.

Questo mi riporta a una riflessione sui livelli di retribuzione dei lavori culturali. La cifra che indichi tu come media, intorno ai 1.300 euro al mese, è grossomodo quella dello stipendio dei vincitori del concorso Mibact 500. Con questa cifra un professionista non è in grado di vivere in autonomia in una grande città del paese. Quindi non si può ritenere adeguata. Come ci si può procurare l’aggiornamento continuo necessario, con queste cifre? Il sistema paese non è doloso in questo caso?

Sì, certo. Il lavoro culturale c’è e potrebbe essere tantissimo. E non è vero che non ce ne sia di remunerato (ad esempio nello star system è remunerato fin troppo); la cosa difficile è trovare le condizioni di una adeguata remunerazione e adeguata crescita professionale. Non esistono percorsi di carriera, i mercati, se confrontati con l’investimento familiare e personale, sono vischiosi, stranianti e provocano storture pazzesche.  Ad esempio, al posto di ascensori sociali creati grazie alla formazione, nel mondo della cultura esistono professioni piuttosto da élite, nel senso che il sostentamento è altrove.
Il problema riguarda anche la fuga di cervelli: la costruzione di immaginari è sempre più importante ma per costruire un immaginario devi essere bravo. Se chi è capace è costretto ad andarsene come avviene negli altri settori, è una perdita. Il nostro è un paese nato con una attitudine alla narrazione e, per tradizione, ha oggettivi punti di vantaggio comparativo: ad esempio la lingua italiana e la sua diffusione grazie alla musica. Anche un australiano può sorprendenti dicendo “nessun dorma”.
Ci preoccupiamo della fuga degli scienziati, ma anche la fuga dei lavoratori della cultura è una grossa perdita. Per altro l’investimento in talento culturale comporta uno sforzo meno impegnativo e dal punto di vista del sistema paese è diffuso, capillare e ha un ritorno molto alto rispetto a quanto investito.
Il punto non è che non si facciano ritorni, ma che non ci si investe abbastanza da generare un effetto moltiplicatore.

Perché non pensare a defiscalizzare il lavoro culturale? Sappiamo che non si tratta di organizzazioni che possano puntare alla sostenibilità totale, ma che vengono sostenute dal pubblico o dal privato. Perché non detassare il lavoro allora evitando una partita di giro?

Ci si può lavorare in tanti modi. A me pare efficace fare incentivi al consumo e non alla produzione perché in questo modo crei competizione nella produzione; gli operatori culturali sono bravissimi a fare tutto quello che possono anche con poco, ma questo non significa che siano dei buoni gestori o efficaci ed efficienti da un punto di vista gestionale. Quindi se io incentivo la produzione paradossalmente non incentivo una presa di coscienza sulla qualità della gestione, mentre se incentivo il consumo genero competizione nell’offerta.
Credo sarebbe un modo per spendere i fondi pubblici generando un miglioramento della qualità complessiva del sistema.
Ad esempio, io ho apprezzato l’iniziativa del 500 euro per i diciottenni: stimolando un consumo stimolo i produttori culturali alla concorrenza. In più una delle difficoltà è che in ambito culturale non c’è cultura del dato. Restando all’esempio dei 500 euro per i diciottenni, se l’innovazione avviene ai bordi, se dobbiamo permettere un po’ di ambiguità e cambiamento, se la cultura è prodotto e processo, allora è bene non solo capire cosa succede verticalmente in un settore, ma anche come si comportano le persone quando consumano. Se sono sul versante dell’offerta ho bisogno di sapere cosa succede in un luogo indipendentemente dal fatto che abbia offerta permanente o temporanea. Insomma, che bello sarebbe se, attraverso iniziative come i 500 euro ai diciotteni, e garantendo naturalmente la privacy, si potesse scoprire che di norma il 75% dei diciottenni compra prima i libri di scuola, e poi un 25% compra teatro, e poi chi compra teatro comprano poi anche “varia”. Se si emettessero degli scontrini parlanti legati all’incentivo chi produce avrebbe a disposizione informazioni tanto numerose da rendere possibili reazioni rapide, in particolare sul territorio. La cultura produce esternalità; ma se non è misurata e analizzata non aiuta. C’è bisogno di restituire esternalità con una logica condivisa del dato, per incentivare logiche imprenditoriali trasparenti: bisogna mettere tutti in condizione di beneficiarne, e poi che vinca il migliore.
Non è detto che il modo migliore per sostenere la cultura sia dare più soldi (per un verso senz’altro…); potrebbero non servirne tanti di più ma senza dubbio serve creare le condizioni perché le eccellenze possano emergere, perché le nicchie possano comprendere come crescere ai bordi senza sparare nel mucchio alla cieca.

Il contemporaneo, in cultura e in arte, ha una ricettività per l’innovazione un pochino più alta, mi pare. È l’esistenza del mercato dell’arte contemporanea che li rende diversi?

Non credo. Alcune delle opportunità migliori di valorizzazione attraverso la tecnologia si sono viste nel settore archeologico: la possibilità di contaminazione dell’archeologia con realtà aumentata e la realtà virtuale sono elevatissime (si veda l’esempio romano della valorizzazione delle domus patrizie di Palazzo Valentini e della colonna traiana).  Però dato che il contemporaneo lavora sull’oggi e l’oggi è imbevuto di tecnologia è certamente più facile che si incontrino.
La contaminazione del mercato nel caso dell’arte contemporanea è fortissima e fortemente distorsiva. Il mercato è solo alto, globale, speculativo e quindi schiaccia la possibilità di crescita; è l’equivalente dell’eccesso di best seller in editoria: un Bourdieu all’ennesima potenza che lascia solo briciole intorno.  Quel che succede è la contaminazione fra settori espressivi diversi: arti visive, performative, grafica, fotografia, cinema: c’è un fermento diverso perché è un mercato potenzialmente più grande. Le gradi istituzioni devote all’arte contemporanea hanno poi disponibilità di risorse che gli altri non hanno e questo consente loro di lavorare e investire anche in tecnologia.  Vedo invece, parlando di potenziale, una grande opportunità nel settore archeologico.

Ho notato l’assenza ad un riferimento in bibliografia, quello a Martha Nussbaum, Non per profitto: è una lacuna intenzionale?

Perché abbiamo paura di riconoscere che desideriamo che con la cultura si mangi di più? O si interpreta il profitto solo nella logica peggiore (come il mercato dell’arte contemporanea gestito da piccoli potenti manipoli)? Il tema è l’equa remunerazione. Bisogna lavorare sulle condizioni di contesto, sulla disponibilità di dati, per far emergere non solo l’eccellenza e il genio, ma anche chi è adeguatamente bravo; altrimenti si creano le bolle, che non creano affatto sviluppo sostenibile.
Bisogna intanto riconoscere che è giusto remunerare anche la cultura, a tutti i livelli. Il settore no profit le domande se le sta facendo: si è posto di più il problema di sviluppare modi di gestire adeguati. Il rifiuto aprioristico della logica di remunerazione è insensato: accettarla significa liberare risorse nell’ottica dello sviluppo sostenibile.
Maria Elena Colombo -16 novembre 2018

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