Il film di Frank
Capra uscì per il Natale 1946. Ma fin dalle origini il cinema da una parte ha
scelto di raccontare la grotta di Betlemme e dall'altra ha inquadrato le sue
storie nel tempo natalizio
Le macerie della Seconda guerra mondiale erano ancora fumanti,
le vite e le coscienze soppresse e lacerate, il dopo Yalta preparava la Guerra
Fredda. In occasione del Natale Hollywood pensò bene di regalare una storia,
per sanare le ferite, che subito sarebbe entrata nell’immaginario
universale: La vita è meravigliosa di Frank Capra, la cui
prima si tenne al Globe Theatre di New York il 20 dicembre del 1946. Da
settant’anni, proiezione natalizia delle tv di tutto il mondo; dal 2007, primo
tra i cento migliori film americani «più commoventi» (American Film Institute).
È l’autentico “racconto di Natale” che lega, magistralmente, aspetto etico e
religioso. Chi non ricorda la storia di George Bailey (James Stewart) tra vita
dedicata agli altri, crisi, immaginato suicidio, angelo custode («di seconda
classe, ossia senza ali»), vita/non vita, dramma/gioia: tutto nella sera-notte
del 24 dicembre.
Un capolavoro nel quale il siculo-americano Capra parlava
“teologicamente” del momentaneo “silenzio di Dio” e della sua grazia che arriva
comunque; del miracolo della vita; del dono della famiglia (che splendida
moglie e mamma Mary – è Donna Reed); del necessario valore dell’amicizia.
Probabilmente, a oggi, l’unico film sul Natale che riassuma tutti i più
importanti insegnamenti della buona novella, compreso quello della preghiera.
Rivedetevi George che recita, disperato, il Padre nostro, sul ponte, per
cercare di non volare giù nel gelido e travolgente fiume.
In realtà, la settima arte si sentì subito chiamata a
raccontare, biblicamente, la “storia più bella del mondo”. In La Vita e
la Passione di Gesù Cristo (1903) di Ferdinand Zecca e Lucien Nonguet,
nell’episodio “Natività” Giuseppe e Maria, s’inginocchiano ai lati della vuota
culletta per pregare l’Altissimo; dopo un po’, per trucco di sostituzione,
appare il regale ospite.Nel 1906, una delle prime donne registe, Alice Guy Blaché,
firma La vie du Christ (32’, casa Gaumont). L’episodio
“Adorazione dei Magi”, seppur dalla scenografia occidentalizzante, colpisce per
l’infante Gesù còlto mentre muove le braccine – il piccolo attore è di certo
sollecitato dal gran bailamme del set – per salutare i Magi e i rispettivi
servitori, intenti a omaggiarlo con mediorientali inchini e doni.
La produzione statunitense del tempo (ancora legata all’East
Coast) risponde al tema con un interessante From the Manger to the
Cross (1912), diretto da Sidney Olcott, su sceneggiatura dell’attrice
Gene Gauntier (è la Vergine), una trasposizione fedele al testo evangelico di
Luca, utilizzato negli intertitoli. Nel primo quadro, “The Annunciation and the
Infancy of Christ” il neonato Gesù, nella mangiatoia, è avvolto in candidi
panni. Al lato della culla c’è Maria, velo bianco sul capo: il colore allude
alla verginità del parto.Negli anni Sessanta incontriamo uno dei più begli
incipit filmici dedicati alla notte di Natale in La più grande storia
mai raccontata (1965, di Georges Stevens). Qui, una brillante stella
nel cielo notturno, in campo lunghissimo, si dissolve in una fiammella di un
lume a petrolio in primissimo piano, chiamata a illuminare un’ampia stalla. Un
braccino di un neonato si alza verso l’alto e pare che ringrazi o indichi
qualcuno in cielo. Il braccino si dissolve in un dischetto dorato (rimanda,
come in una anticipazione, a un’ostia) e, successivamente, nel disco solare
(Gesù luce del mondo). Nel decennio successivo, nell’insuperato Gesù di
Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, la nascita di Gesù è resa con un
campo/controcampo tra Maria nelle doglie e Giuseppe che la rassicura con lo
sguardo, magari pregando. Nel taglio seguente, dopo il parto, Giuseppe prende
in braccio il piccolo Gesù e, solo dopo, lo pone accanto alla Madre, stesa sul
giaciglio a recuperare le forze, serenamente. Per la prima volta il cinema,
teologicamente, sottolineava l’importanza della paternità adottiva accanto alla
maternità.
In Nativity (2006), a oggi il più articolato
film dedicato alla notte di Natale, dall’apprezzabile chiaroscuro caravaggesco,
la regista Catherine Hardwicke purtroppo esagera nella lettura “docufiction”
dell’evento: rapidi campi/controcampi in primissimo piano con Giuseppe
”ostetrico” e Maria che suda e soffre.Accanto alla rievocazione biblica il
cinema, come ricordato con Capra, affronta storie laiche ambientate nel tempo
natalizio. Per oltre un secolo, quanti Natali abbiamo visto in contesti
variegati e secondo differenti tradizioni? Eccoci con il Natale in città
in Miracolo sulla 34° strada, 1947, di George Seaton, Oscar 1948:
qui due Babbo Natale, uno buono e l’altro perfido, si fronteggiano; Natale da
reclusi in Natale al "campo 119", 1948 di Pietro
Francisci: un gruppo di soldati italiani festeggia un grigio Natale in un campo
di prigionia in California; Natale estivo in Natale nel bosco,
1947, di Ralph Smart: quattro ragazzi, per inseguire tre ladri di cavalli,
finiscono in un bosco e lì sono costretti a passare le feste; Natale di ex
galeotti in Non siamo angeli, 1955, Michael Curtiz: tre evasi
trovano accoglienza in una casa in cui si sta festeggiando il Natale; Natale in
provincia Il Natale rubato, 2003, Pino Tordiglione: un disoccupato
ruba, per disperazione, una preziosa statuetta da un presepe; Natale nelle
trincee in Joyeux Noël, 2007, di Christian Carion: soldati belgi,
tedeschi e scozzesi, sul fronte belga, poco prima di mezzanotte, smettono di
sparare, intonano canti natalizi, escono dalle trincee e lentamente si danno la
mano, si abbracciano, si parlano usando più lingue. È nato il Salvatore.
Eusebio Ciccotti - https://www.avvenire.it/agora/pagine/compie-70-anni-la-vita-e-meravigliosa
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