Fu l’inizio della strategia della
tensione
Il presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella, nel giorno dell’anniversario della strage di Piazza Fontana,
ha ricordato che “il popolo italiano ha saputo sconfiggere gli evasori grazie
alla propria unità e ai valori radicati nella sua storia, nella sua cultura,
nella vita sociale, anche se il costo umano di questa battaglia di libertà e di
civiltà è stato assai elevato”.
La strage di piazza Fontana fu conseguenza di un
grave attentato terroristico compiuto il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano presso la Banca
Nazionale dell'Agricoltura che causò 17 morti e 88 feriti. Considerata «la madre di tutte le
stragi»,,il «primo e più dirompente atto
terroristico dal dopoguerra», «il momento più incandescente
della strategia
della tensione» e da
alcuni ritenuto l'inizio del periodo passato alla storia in Italia come anni di piombo. Per tanti aspetti si può parlare d'una storia della
Repubblica prima e dopo piazza Fontana. Gli attentati terroristici di quel
giorno furono cinque, concentrati in un lasso di tempo di appena 53 minuti, e
colpirono contemporaneamente Roma e Milano, le due maggiori città d'Italia. A Roma ci furono tre attentati che provocarono 16 feriti, uno
alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, uno in Piazza Venezia e un
altro all'Altare della Patria; a Milano, una seconda bomba venne
ritrovata inesplosa in piazza della Scala.
La strage della Banca dell'Agricoltura non fu la più atroce tra quelle che
hanno insanguinato l'Italia, ma diede avvio al periodo stragista della
"strategia della tensione", che vide realizzare numerosi attentati
come la strage di
piazza della Loggia del 28
maggio 1974 (8 morti), la strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti) e la più
sanguinosa strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti). Le lunghe e
innumerevoli indagini hanno rivelato che la strage fu compiuta da terroristi
dell'estrema destra, collegati con apparati statali e sovranazionali
i quali però non sono mai stati perseguiti.
Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione ha stabilito che la strage fu opera
di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell'alveo di Ordine nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più perseguibili in quanto precedentemente
assolti con giudizio definitivo dalla Corte d'assise d'appello di Bari. Gli
esecutori materiali sono ignoti.
A causa del ricorso al segreto di Stato durante le indagini, la storia giudiziaria della
strage di Piazza Fontana rappresenta sul versante terrorismo quello che
il golpe Borghese rappresenta sul versante
dell'eversione
.
Le indagini si sono susseguite nel corso degli anni, con imputazioni a
carico di vari esponenti anarchici e neofascisti; tuttavia alla fine tutti gli
accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria (peraltro alcuni sono
stati condannati per altre stragi, e altri hanno usufruito della prescrizione,
evitando la pena). La vicenda è oggetto di controverse interpretazioni; una
delle ipotesi sostiene che, una volta abbandonata la pista anarchica, il
sospetto che gli attentati fossero opera dei neofascisti fu usato per dare
credito alle teorie della «strategia
della tensione» (un
disegno dell'estrema destra per creare instabilità nelle istituzioni e
terrorizzare i cittadini), e della «strage di Stato», ordinata da settori del
mondo politico (dai servizi segreti e da collusioni tra mondo dell'economia e
criminalità) per diffondere il panico e giustificare misure d'emergenza, in
modo da garantire il potere ai settori più reazionari della politica.
Al termine dell'ultimo processo del 2005 la Cassazione ha affermato che
la strage fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza
definitiva nel 1987; non è mai stata emessa una sentenza
per gli esecutori materiali, coloro che cioè portarono la valigia con la bomba
Storia
Il 12 dicembre 1969 la sede
della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, era piena di clienti
venuti soprattutto dalla provincia; alle 16:30, mentre gli altri istituti di
credito chiudevano, all'interno della filiale c'erano ancora molte persone.
L'esplosione avvenne alle 16:37, quando nel grande salone dal tetto a cupola
scoppiò un ordigno contenente 7 chili di tritolo, uccidendo 17 persone delle
quali 13 sul colpo, e ferendone altre 87; la diciassettesima vittima morì un
anno dopo per problemi di salute legati all'esplosione. Una seconda bomba fu
rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana,
in piazza
della Scala. La borsa fu recuperata ma l'ordigno, che poteva
fornire preziosi elementi per l'indagine, fu fatto brillare dagli artificieri
la sera stessa. Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio
sotterraneo che collegava l'entrata di via
Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con
quella di via di San Basilio; altre due esplosero a Roma tra le 17:20 e le
17:30, una davanti all'Altare
della Patria e l'altra all'ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto 16
Le indagini
Le indagini vennero orientate
inizialmente nei confronti di tutti i gruppi in cui potevano esserci possibili estremisti;
furono fermate per accertamenti circa 80 persone, in particolare alcuni
anarchici del Circolo
anarchico 22 marzo di Roma (tra i quali figurava Pietro Valpreda) e del Circolo
anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano (tra i quali
figurava Giuseppe Pinelli). Secondo quanto
dichiarato da Antonino
Allegra, ai tempi responsabile dell'ufficio politico della questura, alla Commissione Stragi, gli arresti erano
stati particolarmente numerosi e avevano interessato anche esponenti
della destra estrema, con lo scopo di
evitare che nei giorni seguenti questi individui, ritenuti a rischio, potessero
dare vita a manifestazioni o altre azioni pericolose per l'ordine pubblico[29].
Da Milano il prefetto Libero Mazza, su segnalazione di Federico
Umberto D'Amato, direttore dell'Ufficio
affari riservati del Viminale, avvisò il Presidente del
Consiglio Mariano Rumor: «L'ipotesi
attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi».
Ipotesi che si rivelò un depistaggio attuato proprio dall'Ufficio
Affari Riservati
Giuseppe Pinelli[
Il 12 dicembre l'anarchico Giuseppe Pinelli (già fermato ed interrogato con
altri anarchici nella primavera 1969 per alcuni
attentatisuccessivamente rivelatisi invece di matrice neofascista), venne fermato e
interrogato a lungo in questura. Il 15 dicembre, dopo tre giorni di
interrogatori, morì dopo essere precipitato dal quarto piano della questura; l'inchiesta
giudiziaria, coordinata dal sostituto procuratore Gerardo D'Ambrosio, individuò la causa
della morte in un malore, in seguito al quale l'uomo sarebbe caduto da solo,
sporgendosi troppo dalla ringhiera del balcone della stanza; la prima versione,
risalente al 16 dicembre, indicava che Pinelli si era buttato dopo che il suo
alibi era crollato, urlando «È la fine dell’anarchia»(..)
Pietro Valpreda
Il 16 dicembre venne arrestato anche un
altro anarchico, Pietro Valpreda, indicato dal tassista Cornelio Rolandi
come l'uomo che nel pomeriggio del 12 dicembre era sceso dal suo taxi in piazza
Fontana, recando con sé una grossa valigia. Rolandi ottenne anche la taglia di
50 milioni di lire disposta per chi avesse fornito informazioni utili. Valpreda
fu interrogato dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio che gli contestò l'omicidio di
quattordici persone e il ferimento di altre ottanta. Il giorno dopo il Corriere
della Sera titolò che il «mostro» era stato catturato(..).
Le dichiarazioni del tassista
determinano, però, uno scenario poco plausibile in quanto egli dichiarò che
Valpreda avrebbe preso il suo taxi in piazza Cesare Beccaria, la quale dista 130
metri a piedi da piazza Fontanama venne osservato che Valpreda
fosse claudicante. Il taxi, però, non
si fermò in piazza Fontana, ma proseguì sino alla fine di via Santa Tecla e in
tal modo Valpreda dovette percorrere 110 metri a piedi, al posto dei 130 metri
originari risparmiando 20 metri ma ponendolo però di fronte al rischio di farsi
riconoscere; inoltre Valpreda avrebbe chiesto al tassista di attenderlo e in
questo modo, avrebbe dovuto ripercorrere all'inverso i 110 metri (anche se
questa volta non avrebbe portato più con sé la pesante valigia). Indagini
successive videro prendere corpo l'ipotesi di un sosia, il quale prese il taxi
al posto di Valpreda. Venne quindi avanzata dalla pubblicistica un'ipotesi,
secondo cui il sosia sarebbe stato tale Antonino Sottosanti, un ex legionario
siciliano, infiltrato nel circolo anarchico di Pinelli nel quale era conosciuto
– per via dei suoi trascorsi – come «Nino il fascista», ipotesi mai riscontrata
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