La Mattina Del quarantesimo compleanno di mia madre,
io avevo undici anni e stavo andando a scuola. Era primavera inoltrata,
indossavo un paio di bermude a righe rosse e mi godevo quella camminata
solitaria, indiscutibile prova di una raggiunta, seppur relativa autonomia. Non
ricordo come l’avessi festeggiata prima di uscire, né quali programmi avesse
mia mamma per celebrare quel numero rotondo. Ma tra gli scampoli della quinta
elementare e gli allori della pubertà non resta mai molto spazio per sollevare
lo sguardo dal proprio ombelico e dirigerlo verso il mondo dei grandi. O verso
una moto che passa sulle strisce pedonali senza fermarsi. Fui investita da una
Vespa alle 8, 20 circa di una mattina di fine maggio. Proprio un bel regalo per
i primi quarant’anni di una madre (“Pronto, sua figlia ha avuto un incidente.
Ora è in ambulanza. Comunque non si preoccupi”). Feci un gran volo e atterrai
di schiena, sopra la mia cartella blu. Mentre ero in aria mi vidi la gamba
sinistra. Sembrava quella della Holly Hobby, la bambola fricchettona di pezza.
E invece era la mia. Stranissimo, pensai- Ebbi una frattura multipla e
scomposta, un intervento chirurgico, vari gessi e quattro mesi funestai da una
forzata immobilità. In quell’estate passata in parte a letto, in parte saltellando
sulle stampelle, scoprii l’acerba solidarietà dei ragazzini, l’affetto di Nna,
l’amica del terzo piano, i cruci-puzzle, la frustrazione, l’amore devoto dei
miei, la rassegnazione, la malinconia e la resistenza. Furono mesi formativi.
Ne conservo una memoria vivida e una brutta cicatrice di cui non mi curo ma che
periodicamente desta la curiosità dei miei figli. “Ma tu lo avevi visto quello
che ti ha investito?” ha domandato qualche giorno fa quello di mezzo
scrutandomi la gamba. “Sì, certo. “E non lo odi?”, ha rincarato, già pronto
alla vendetta. Era un ragazzino di 16 anni, terrorizzato quanto me e forse di
più. Scese dalla moto e mi sollevò delicatamente da terra. Mi aggrappai a lui e
mi tenne sulle sue gambe, perché non sporcassi i miei bermuda nuovi. Restammo
lì a terra ad aspettare l’ambulanza per un tempo che mi parve infinito, vittima
e colpevole, fusi in un abbraccio necessario e incredulo. Di lui ricordo che
tremava to. Anzi” portava un brillantino all’orecchio destro. Qualche giorno
dopo venne a trovarmi in ospedale. “No, non l’ho mai odiato. Anzi”. Passai
quell’estate torrida e derelitta a difenderlo dagli strali che periodicamente
venivano scagliati contro di lui dai miei genitori esausti e preoccupati. “Ma
no, dai, poverino, non dite così, replicavo ogni qualvolta qualcuno lo evocava
rabbiosamente. “E perché?”, ha chiesto mio figlio. Per bontà d’animo? Per la
sindrome di Stoccolma? Per masochismo o per follia? No, non credo. Sono convinta
che l’inopportuna e incomprensibile empatia nei confronti di quel ragazzetto,
incurante di un attraversamento pedonale, sia imputabile alla sua paura, al suo
sconforto, al tremore delle sue mani, alla sua umanità impudica. Eravamo
vittime dello stesso incidente, preda dello stesso spavento. La condivisione
dello stesso smarrimento ci ha travolti e una, dieci, cento volte, con la
frustrazione di chi non può fare nient’altro. Aveva solo sedici anni e mi è
venuto addosso con la sua stupida moto come un pirata, ma era una persona pe
bene. Per questo non è mai diventato mio nemico e non sono mai stata capace di
detestarlo. “Allora? Perché, mamma?”.
Boh. Forse perché era carino”. “Non ci posso credere. Io, voi femmine,
non vi capirò mai”.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 29
luglio 2017 -
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