L’Estate Per Qualcuno è la stagione delle avventure e della
trasgressione, per altri della fuga, per altri ancora del riposo. Per me, che
da dieci anni vado sempre nello stesso posto nel New England e mi accompagno
con quattro individui che hanno placato la mia ansia di evasione, l’estate è il
tempo degli esperimenti. Mi cimento così in balzane, talvolta fallimentari
sfide professionali, mi dipingo (senza esserne capace) le unghie di colori
improbabili, indosso stracci per sentirmi libera, scopro dipendenze da cibi con
ortodossi (cereali alla banana, germogli di piante aliene, pomodori gialli,
carote verdi e gelati blu), passeggio per cimiteri di campagna, vedo film di
zombie coreani in lingua originale e frequento il recreation center dell’università locale, dove mi ritrovo a ballare
la zumba e a sollevare pesi in libbre accanto a individui che potrebbero essere
miei figli. Quest’anno, durante il corso di kickboxing, saltellando con
eccessivo vigore per dimostrare a me stessa di non avere nulla da invidiare
alla gioventù intorno, mi sono fatta male a una gamba, e l’incidente mi ha
precluso qualsiasi attività che contemplasse corsa, ballo o saltelli. Così ho
ripiegato sullo yoga, attività a me estranea e ignota ma da molti considerata
sublime e irrinunciabile. Ho scoperto che abbiamo muscoli potenzialmente
dolenti in ogni recondito anfratto del nostro corpo, che si può fare un’immensa
fatica anche senza saltellare come grilli impazziti, che chi pratica lo yoga è
mediamente più amabile e cortese della media, che dopo la lezione si dorme come
sassi e che durante il tempo si ferma, che c’è qualcosa di ipnotico nel restare
immobili in posizioni innaturali e dolorosissime, che ogni tanto l’insegnante,
almeno la mia, sproloquia. “Passione…compassione…devozione… siete solo amore”,
sussurrava mentre noi perdevamo la sensibilità degli arti nella posizione del
guerriero. Dispensava parole apparentemente casuali, concetti arditi, perle
filosofiche camminando scalza e leggiadra tra noi stremati, forse nel tentativo
di darci conforto o cibo per lo spirito. Di solito ero troppo impegnata a
mantenermi invita per ascoltarla. A un tatto, durante una lezione, ha
dichiarato: “Non mettete mai la vostra felicità nelle mani di qualcun altro: la
farà quasi certamente cadere”, e improvvisamente ho ripreso conoscenza. “Che
significa?”. Mi sono domandata. Dal basso della mia posizione del cobra. Da chi
deve dipendere la felicità se non dal nostro prossimo e da quello che accade
intorno a noi? E’ mai possibile procurarsi una felicità anarchica e duratura,
che ci appaghi e non abbia bisogno di nessuno se non di noi stessi? Non nella
mia esperienza: io non basto a me stessa. La mia felicità, come un vampiro, si
nutre esclusivamente di altri. Il mio equilibrio e la mis serenità poggiano
sulle spalle di un economista marxista barese dallo sguardo pazzo e dall’animo
quacchero e inquieto. Il mio benessere è alimentato da tre individui minorenni
senza i quali non riesco neppure a immaginarmi. La mia solidità passa per lo
sguardo di mia madre e la sua capacità di rassicurarmi. Le mie passioni
prendono forma e sostanza nei miei colleghi, senza i quali non potrei
coltivarle, nelle persone che mi hanno accompagnata e fatta crescere, in coloro
che hanno creduto e crederanno in me. La mia ambizione risiede nel restituire
la felicitò che ricevo, perché soli siamo ben poca cosa. E che succede se
qualcuno o tutti i detentori della mia felicità se la lasceranno scappare dalle
mani? Ne raccoglieremo i cocci, preferibilmente insieme, e proveremo a
ricostruire quello che si è rotto. Da sola non so se sarei capace. Dopo potremo
chiudere gli occhi e rilassarci, magari nella posizione del bambino felice.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 26
agosto 2017 -
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