Credo Che Se il piccolo Charlie Gard, quel bimbetto gravemente malato e sofferente,
potesse parlare, direbbe ai genitori e a tutti coloro che vogliono protrarre i
giorni dei suoi patimenti: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”. Nell’Antico
Testamento si legge: “Sono io che do la morte e faccio vivere” (Dt 32,39); “Il
Signore dà la morte e dà la vita, fa scendere agli inferi e ne fa risalire”
(1Sm2,6). “La Chiesa si appella a versetti
come questi per affermare: “La vita e la morte dell’uomo sono, dunque, nelle
mani di Dio, in suo potere”; “Morire per il Signore significa vivere la propria
morte come atto supremo di obbedienza al Padre, accettando di incontrarla nell’ora
voluta e scelta da Lui, che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto”
(cfr Evangelium vitae, 67. Ora, se
c’è un Dio creatore e una creazione, è ovvio che questa dipenda da Dio a
“decidere” di dare la vita e la morte a ogni individuo. Il concetto non solo non
trova seria rispondenza nelle Scritture, ma è contraddetto dalla ragione e
dalla nostra esperienza. Si pensi a un concepimento a seguito di uno stupro,
agli aborti spontanei, alle morti premature, accidentali, ecc. Non possiamo
pensare che sia Dio a prendere simili “decisioni”. Che idea dovremmo farci del
Creatore? Una signora racconta la storia della sua bimba che morì a 18 giorni
dalla nascita e, in perfetta buona fede ovviamente, fa un’affermazione che alle
mie orecchie suona come un’offesa a Dio. Scrive: “Stare per 18 giorni di fronte
a quella croce è stata per me un’esperienza radicale di Amore. Ho capito che
quella bimba non era mia, che non era dei medici, che era lì solo perché il
buon Dio l’aveva messa lì e chiedeva a tutti di starle accanto accompagnandola
al suo destino, Un pezzo di Cielo nella infinita miseria delle nostre vite. E
chi ha fatto quella esperienza con noi ha visto quanta potenza di Amore possa
emanare un bimbo morente”. Belle parole, ma l’errore gravissimo è attribuire a
Dio la malattia e la morte della piccola. La tentazione di molti cristiani, a
mio parere poco cristiani, è di protrarre il più possibile la loro “esperienza
di Amore”, mettendo in secondo piano le sofferenze del malato senza speranza,
che sicuramente vorrebbe essere lasciato in pace. Elisa Merlo
lisamer@tiscali.it
Intorno Alle Situazioni
Limite, che sono poi la nascita e la morte, non bisogna far chiasso in nome di
Dio o contro Dio. Il rumore del mondo non deve invadere, con le prese di
posizioni dettate dalla ragione o dalla fede, quel silenzio che c’è prima della
nascita e dopo la morte. Se uno crede che sia Dio a dare la vita e la morte,
non è il caso di andare a vedere se di questa credenza c’è una corrispondenza nelle
Scritture. Perché, a prescindere dal fatto che questo riscontro lo si trovi o
non lo si trovi, se uno trae conforto dal pensare che le cose vanno così, per
quale sadica ragione, nell’abisso del dolore, togliergli questa consolazione?
La verità, sempre difficile se non impossibile da trovare quando si tratta
delle cose ultime, o serve per trovare la forza di continuare o non è di alcuna
utilità. Allo stesso modo possiamo dire che è altrettanto inutile cercare conforto
nella ragione che nulla sa del nostro nascere e del nostro morire, dal momento
che queste situazioni-limite fuoriescono dal suo orizzonte. E lo stesso dicasi
circa il far ricorso alla nostra esperienza, a sua volta, nulla sa della morte
degli altri e al limite neppure della nostra, dal momento che quando moriamo
non possiamo più far tesoro della nostra esperienza. Quanto ai cristiani che
vorrebbero tenere in vita Charlie per “fare esperienza dell’amore di Dio”, non
credo sia questa la ragione che li muove, ma semplicemente il fatto che questa tragedia,
divenuta mediatica, commuove. Mentre quella moltitudine di bambini e di madri
migranti che annegano nel Mediterraneo, diventando mediatici solo come cifre,
non commuove nessuno, e di fronte al loro disperato affogare nelle acque, non
si “fa esperienza dell’amore di Dio”. La natura distribuisce la vita e la morte
con una noncuranza assoluta, dando o non dando le condizioni di esistere. Per
essa non è di alcun interesse la sorte degli individui, ma unicamente il
ricambio generazionale, tenendo in vita i più idonei e lasciando perire i meno
idonei. La cultura, l’educazione, la scienza, la tecnica e le pratiche di cura
cercano di porre rimedio a questa indifferenza della natura, fino a quel limite
(marginale) con cui la cultura riesce a spingersi nel suo tentativo di
contestare la natura. Ma oltre quel limite la sorte è segnata perché, come
dicevano gli antichi Greci: “l’uomo è mortale”. E non muore perché si ammala
ma, ce lo ricorda Michel Foucault, si ammala perché fondamentalmente deve
morire.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 5 agosto – 2017 –
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