Ho Trent’anni e per carattere, ma anche per storia per storia personale, la mia
tendenza è sempre stata quella di temere ciò che non si conosce. Tale
atteggiamento mi ha portato a scegliere di non fare esperienza di molte cose
(amore, viaggi, divertimenti giovanili, etc…), mantenendomi in un approccio
tutto teorico della vita. Approccio forse non banale, ma altrettanto privo di
fondamenti pratici. Quindi non verificabili. Oggi diverse persone mi dicono che
per molto tempo di fatto non avrei vissuto, perché non ho fatto esperienza, o
almeno ne ho fatta pochissima. Lo ammetto, ma non accetto l’accusa di non
essermi misurata con la realtà delle cose, e tanto meno la definizione, non
senza una punta di critica, di intellettuale. Questo è certamente vero, ma quel
che contesto è che tale intellettualità, da sola, porti a non vivere. Perché
per me vivere significa, prima di ogni altra cosa, imparare, conoscere. E se
per molto tempo io non ho conosciuto molte cose facendone esperienza, non sono
rimasta a dormire, in uno stato vegetativo. Ho letto, studiato, imparato. Così
dal mio punto di vista, secondo il quale vivere equivale appunto a conoscere,
io mi sento di poter dire che, sì, ho vissuto, e che questi anni non sono
trascorsi affatto invano, ma mi permettono oggi di apprezzare con maggior
consapevolezza le esperienze che sto facendo.
Lettera firmata
Esperienza È Una Parola equivoca.
Lei, e i suoi amici che le rimproverano di non aver fatto esperienza, partire
dal presupposto che l’esperienza sia offerta dalla realtà che basta frequentare
per fare, appunto, esperienza. Di fatto la realtà non è mai accessibile se non
nella forma già codificata da un’interpretazione personale. L’uomo, infatti,
non ha mai abitato la realtà, ma sempre
e solo l’interpretazione ce le varie epoche ne hanno dato. Se infatti è vero
che nel mondo antico la realtà era descritta dal mito, nel medioevo dalla
scienza, e oggi dalla tecnica, ci è consentito dire che gli uomini non hanno
mai conosciuto la realtà, ma solo la sua interpretazione, prima mitica, poi
religiosa, poi scientifica e ora tecnica. Se non fosse stato così non potremmo
parlare di storia e di successione di epoche. All’interno di questa
interpretazione collettiva della realtà, c’è poi l’interpretazione personale,
per cui quando i padri dicono ai figli e i vecchi ai giovani: “Parlo per
esperienza” non è di alcuna utilità. Come scrive infatti il filosofo Andrea
Tagliapietra in un bellissimo libro uscito in questi giorni dal titolo
Esperienza (Ed. Cortina): “Nell’era di Internet, dello smartphone, dei Google
Glass e degli altri apparecchi tecnologi che affollano la nostra vita
quotidiana con la capillarità di un’ossessione psichica e l’invadenza di
protesi corporee, l’esperienza appare sempre filtrata, mediata da dispositivi
composti da schermi che tocchiamo ma non attraversiamo mai e che, quindi, non
ci fanno mai toccare il mondo”. Se un tempo l’uomo doveva percorrere il mondo
per esplorarlo e farne conoscenza, ora tramite radio, televisione, internet, il
mondo ci è fornito a casa come l’acqua, il gas, la luce e ciò modifica
radicalmente il nostro modo di fare esperienza. Se per conoscere quel che
avviene nel mondo dobbiamo tornare a casa, non “siamo più nel mondo” come vuole
l’espressione di Heidegger, ma siamo semplici consumatori del mondo, di cui
peraltro consumiamo solo le immagini. Le quali, potendo essere evocate in
qualsiasi momento, confondono in noi i concetti di “limite” e di “onnipotenza”
a stretto confine col mondo dei sogni e delle allucinazioni. Se infine
l’importanza di un fatto dipende dalla sua diffusione mediatica, allora la
realtà dovrà misurarsi sull’apparire, ansi sulla sua illimitata duplicazione.
Di questa noi facciamo esperienza, non della realtà. Ci veniamo così a trovare
in una condizione analoga a quella descritta da Günther
Anders in quel Racconto per bambini
dove si narra questa storia: “Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio,
abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi
un giudizio sul mondo perciò gli regalò carrozza e cavalli: “Ora non hai più
bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito
di farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro
effetto”. Se l’esperienza non è un contatto con la realtà come i più credono,
ma con l’interpretazione collettiva e individuale della realtà, e oggi con le
immagini della realtà fornite dai media, il fatto che lei pensi molto e si
ponga domande significa che è nelle condizioni migliori per decodificare le
interpretazioni della realtà e per smascherarne le immagini, che i più
scambiano per realtà perché vivono solo nella realtà diffusa dai media.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 19 agosto 2017
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