Nella Immensa
Insalatiera di razze che conosciamo come America, l’origine
etnica, per quanto lontana e vaga, è il ramoscello cui molti si aggrappano per
cercare un’identità, magari posticcia. “Sono irlandese”, sentirete dire da
qualcuno che ha un bisnonno immigrato da un paese con il quale nessuno dei
discendenti ha più avuto un rapporto. “Sono italiano”, “Sono tedesco”, anche se
la sola relazione concreta con la nazione da cui vennero gli antenati è la
frequentazione di pessimi ristoranti. A questa tenace bisogno di conferma
stanno rispondendo laboratori che, per cifre modeste e in poche settimane,
analizzano la saliva per cercare le tracce di progenitori e progenitrici, nella
notte del passato. “È pur curiosità”, dicono i clienti, e curiosa era Alice
Campbell Plebuch, una dei quasi 10 milioni di americani che hanno speso i 99
dollari per lo studio del Dna, la mappa della propria esistenza. Era nata da
una madre che vantava un’origine irlandese. Anche il padre era figlio del
popolo di San Patrizio, un militare cresciuto in un orfanotrofio di suore
cattoliche cui l’avevano affidato i genitori, immigrati poverissimi. Ma quando
i risultati dell’esame le furono recapitati, Alce chiamò immediatamente il
laboratorio, protestando per un errore evidente. Il suo Dna indicava che per
metà era un’Ashkenazi, appartenente cioè a quella parte della diaspora
israelita insediatasi soprattutto in Europa Orientale. Disciplinatamente, la
società richiese un altro campione di saliva, ma il riesame gratuito confermò
il primo esito: Alice era per metà irlandese, per metà ebrea. Niente, neppure
una dei 37mila miliardi di cellule che compongono il suo corpo era stata
cambiata da quella rivelazione. Quella che era cambiata, rovesciandosi
completamente, era la storia della sua vita, e ka scoperta che 50 anni di
feste, incontri, ricorrenze, narrazioni familiari erano stati fondati, almeno a
metà, su un falso. Ma ogni risposta produce sempre un’altra domanda, e la
ricerca cominciò a espandersi come la radice di un albero. Il padre sapeva di non
essere irlandese o lo credeva? E se fosse stato davvero irlandese, da chi
proveniva quel 50 per cento di Dna Ashkenazi? La curiosità divenne ossessione.
Alice convinse i tre fratelli e le tre sorelle a sottoporsi allo stesso esame:
tutti risultarono avere la stessa doppia identità genetica. Dunque la mamma era
stata fedele al marito, a meno che lo avesse tradito almeno sette volte con un
emigrato ebreo. Forse i primi cugini avrebbero potuto risolvere il mistero.
Alice persuase anche loro a farsi esaminare. In tutti c’era la presenza di
caratteri irlandesi ed ebrei. In tutti, a meno uno. Il cugino con il quale era
cresciuta, che era stato il suo amico più caro, il figlio più amato della zia
materna, non presentava la minima traccia di sangue ebraico. E neppure
irlandese. Il suo cocktail genetico era italiano e greco. Mesi di analisi,
centinaia di dollari spesi, discussioni interminabili erano serviti soltanto a
dimostrare che il cugino era stato adottato, senza che i genitori glielo
avessero mai rivelato. Alla fine di questa fiaba genetica, la sola conclusione
accettabile è stata proprio la sua, quella del cugino-non cugino: “Alice”, le
ha detto, “smettila. Se anche non siamo nati parenti lo siamo diventati nella
vita che abbiamo vissuto con la nostra famiglia”. E siccome era un avvocato, le
diede il consiglio che ogni buon avvocato conosce: non fate mai domande delle
quali non volete conoscere la risposta. “Tu sei chi sei, Alice. Non quello che
erano i tuoi antenati”.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 26
agosto 2017-
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