È Una Bella Signora giovane, bionda e alta, con un
bambino in braccio. Prende la parola per ultima, tra le persone che sono venute
ad ascoltarmi. Siamo nella piazza della chiesa di Albissola dove presento il
mio libro, un evento organizzato da Stefano Milano e dalla libreria Ubik di
Savona. La sua domanda è chiarissima: “Perché ha preso la cittadinanza
americana? Si sente ancora italiano?”. Non è la prima volta che qualcuno me lo
chiede. Ma ai tempi di Barack Obama dietro alla domanda traspariva un po' di
ammirazione nei confronti della mia seconda patria. Ora la stessa domanda si
tinge d’inquietudine. Mi sembra d’intuire cosa c’è dietro: da una parte
l’eterna crisi di autostima degli italiani pieni di sfiducia verso il loro
paese; dall’altra il disgusto che suscita Dinald Trump. Comincio col dire che
non si può scegliere il proprio passaporto a seconda di chi vince le elezioni
ogni quattro anni (Trump fra l’altro le ha perse: la maggioranza ha votato per
Hillary, contro di lui). Ricordo che io sono e resto prima di tutto italiano.
Nonostante sia cresciuto all’estero fin da bambino, ho avuto due genitori
innamorati e orgogliosi dell’Italia e non ho mai dubitato della mia identità
profonda. Né sentivo complessi d’inferiorità verso i miei compagni di scuola
tedeschi o francesi, cresciuti in culture più nazionaliste e arroganti della
nostra. Fra Italia e America vige un accordo che consente la doppia
cittadinanza e a me piace molto, non solo per ragioni di convenienza. C’è
dietro l’idea che le nostre identità possono sommarsi e arricchirsi, e che non
di sfondano sul principio della differenza e dell’esclusione. Non è così con
altri paesi: ho amici tedeschi che acquistando la cittadinanza Usa si sono
visti ritirare dalla Germania quella che avevano alla nascita; non parliamo
della Cina, che aborrisce il principio di una “fedeltà” a due patrie. Inoltre
mi è piaciuto il modo in cui gli Stati Uniti mi hanno accolto. Cinque anni di
Green Card (permesso di residenza) danno il diritto automatico a chiedere la
nazionalità: quest’America è una “fabbrica di nuovi cittadini” e non credo che
basti un presidente a cambiare oltre mezzo secolo di società multietnica (le
riforme che aprirono all’immigrazione sono del 194). La cosa più bella è
l’esame di ammissione. Un test d’inglese. E poi: un altro esame sulla
Costituzione degli Stati Uniti. Ho passato un paio di mesi a studiarmi la legge
fondamentale del paese, oltretutto un esercizio utile per il mio lavoro. Lì
dentro c’è la storia delle origini, ed è una legge viva, viene fatta rispettare
dalla Corte Suprema. Mi piace il messaggio implicito che l’America dà al nuovo
arrivato: sei bene accetto, puoi diventare uno dei nostri, a condizione che tu
conosca e rispetti le nostre regole. Non è un fatto formale. Sul rispetto della
legalità si gioca l’integrazione, riuscita, degli stranieri. L’Italia dovrebbe
imparare. Da noi la cultura delle regole è già poco condivisa dagli italiani,
continuamente oltraggiata. Inevitabilmente si opera una “selezione alla
rovescia” come la descrisse il giudice Davigo: se in un paese è più facile
delinquere impunemente, quel paese attira più criminali. La Costituzione
americana e il Bill of Rights sono coevi della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo. Le rivoluzioni americane e francese furono gemelle, nate dagli
stessi ideali dell’illuminismo, la Filosofia della Ragione. Studiare quei testi
per me è stata un’immersione nei valori dell’Occidente: c’è dentro il meglio di
noi. È una civiltà della quale dobbiamo essere fieri. Stato laico. Stato di
diritto, tutela delle minoranze, rifiuto delle discriminazioni in base al
sesso, alla religione. Libertà di opinione e di espressione. Chi vuole vivere
fra noi, e con noi deve condividere gli stessi principi. Non ce ne sono di
migliori, altrove.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica - 19
agosto 2017 -
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