Il massacro di Nanchino, storia di un genocidio giapponese
Il Massacro di Nanchino è
uno degli episodi più bui della storia cinese contemporanea. La caduta della
capitale nazionalista, avvenuta tra il 10 e il
13 dicembre 1937 a opera delle truppe nipponiche,
segnò l’avvio della fase più cruenta della Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945).
Quando
i giapponesi entrarono a Nanchino, più della metà della popolazione era fuggita: del
milione di persone che vi abitavano prima dello scoppio della guerra, alla data
del 13 dicembre 1937, ne rimanevano circa cinquecentomila. Le peggiori azioni
compiute dagli invasori si concentrarono nelle prime sei settimane
dell’occupazione.
Le torture, le uccisioni e gli stupri
Le torture inflitte
dai giapponesi alla popolazione di Nanchino superano qualsiasi livello di
immaginazione. Alcuni testimoni oculari sopravvissuti a queste atroci supplizi
raccontarono di persone sepolte vive fino alla cintola sventrate con sciabole,
investite con i mezzi di trasporto militari oppure fatte sbranare dai cani da
guerra. Le gare di uccisione erano uno dei passatempi preferiti dai militari
nipponici. I giapponesi catturavano e facevano prigionieri uomini e donne,
tenendoli a digiuno per giorni. Dopo questo trattamento, atto a privarli di
ogni energia, legavano loro mani e piedi e li trasportavano in aree isolate,
fuori dalla città. Qui procedevano alla loro esecuzione; i cadaveri dei
prigionieri venivano quindi gettati all’interno di fosse comuni.
Quello
di Nanchino rappresenta, senza alcun dubbio, uno dei più grandi stupri di massa della
storia. Le stime relative alle donne violentate variano da un minino di
ventimila a un massimo di ottantamila vittime. La perversione dei giapponesi
sembrava essere priva di limiti: non solo organizzavano tornei di stupri a
qualsiasi ora del giorno e in qualunque luogo della città, ma si intrattenevano
anche impalando le loro vittime.
I
prigionieri cinesi furono utilizzati anche come cavie da laboratorio.
Nell’aprile del 1939 i giapponesi convertirono un ospedale, situato nella via
Zhongsan, poco distante del fiume Yangzi, in un laboratorio di ricerca
epistemologia, battezzato Unità
Ei-1644. Gli scienziati nipponici testavano sui
loro pazienti diverse tipologie di veleni, gas e batteri, come quelli del
colera e dell’antrace, alcuni prigionieri furono vivisezionati e altri ancora
era utilizzati come bersagli per testare l’efficienza delle armi da fuoco.
Una
delle stragi più violente, che sollevò dibattiti riguardanti la veridicità
delle azioni disumane perpetuate dai soldati giapponesi e riportata nei Documenti della Zona di sicurezza di Nanchino, è il caso
219, verificatosi il 13 dicembre 1937,
giorno della caduta della città. Quel giorno, trenta soldati giapponesi si
presentarono dinnanzi a una casa in Xinglugao, una via situata nella parte
sud-orientale della città. La porta dell’abitazione fu aperta dal proprietario,
il signor Ma, il quale venne immediatamente ucciso. Il signor Xia, un inquilino
che si era prostrato ai soldati chiedendo che nessun altro venisse ammazzato,
venne a sua volta assassinato. La moglie del proprietario, la signora Ma,
appena chiese in lacrime ai giapponesi il motivo per cui uccisero suo marito,
venne ammazzata con un colpo di pistola alla testa.
La
signora Xia, che si era nascosta sotto il tavolo per proteggere il figlio di un
anno, venne trascinata fuori dal suo nascondiglio, stuprata dai soldati su
quello stesso tavolo, i quali le infilarono una bottiglia di profumo nella
vagina e l’uccisero con un colpo di baionetta al torace. Anche il bambino venne
assassinato. Quindi i soldati si recarono nella stanza attigua, dove trovarono
i genitori della signora Xia e le sue figlie adolescenti. I nonni, che
cercarono di proteggere le nipoti, vennero uccisi con alcuni colpi di pistola.
Due uomini violentarono la ragazza di sedici anni, per poi conficcarle un
bastone di bambù nella vagina, mentre la sorella più giovane, di quattordici
anni, venne ammazzata con un colpo di baionetta. La stessa sorte toccò anche a
una terza sorella, di otto anni, che cercò di nascondersi sotto un letto, nel
tentativo di salvare una quarta sorellina, di quattro anni. Quest’ultima riuscì
a sopravvivere, ma riportò gravi danni celebrali dovuti alla mancanza di
ossigeno, poiché rimase troppo tempo nascosta sotto un mucchio di coperte.
Prima di abbandonare la casa, i soldati giapponesi uccisero anche i due figli
dei coniugi Ma, rispettivamente di quattro e due anni. Vi fu però una seconda
superstite: una figlia dei Xia, di otto anni, Xia Shuqin,
che riuscì anch’ella a nascondersi sotto alcune coperte, nonostante tre ferite
di baionetta ricevute.
Le
due bambine, per quattordici giorni, si nutrirono di croste di riso che la
madre cucinò in vista dell’assedio giapponese. Dopo due settimane, una vecchia
donna tornò nella via, trovò le bambine e le portò con sé nella Zona di sicurezza,
un’area neutrale nel cuore della città istituita da alcuni cittadini americani
ed europei.
Higashinakano
Shudo, professore di Storia intellettuale
presso l’Asia University di Tokyo, nel suo saggio The Nanking Massacre: Fact Versus Fiction: A
Historian’s Quest for the Truth,
sollevò alcune questioni riguardanti il resoconto del pilota John Gillespie
Magee sul caso 219:
1.
Solitamente gli assassini non lasciano
in vita dei testimoni, perché hanno deciso di risparmiare Xia Shuqin e la
sorella minore?
2.
Le due bambine hanno trascorso due
settimane tra i corpi dei familiari e dei membri della famiglia Ma in
decomposizione, perché non sono fuggite?
3.
Se, come ha riferito Xia Shuqin, ogni
giorno soldati giapponesi entravano nell’abitazione, come hanno potuto le
bambine non farsi scoprire per ben quattordici giorni?
4.
L’incidente si è verificato il 13
dicembre, tuttavia alcuni giorni prima, l’8 dicembre fu emanato un ordine di
evacuazione delle aree della città nei pressi della porta Guanghua e della
porta Zhonghua, poste rispettivamente a sud-est e a sud, perché queste due
famiglie decisero di rimanere in una zona di Nanchino così pericolosa?
Vorrei
ora cercare di rispondere a queste domande:
1.
Come riportato nel resoconto
dell’omicidio, i soldati nipponici colpirono, con una baionetta, Xia Shuqin; a
causa delle ferite perse conoscenza e, probabilmente, questo le permise di
sopravvivere, poiché non fu vittima di ulteriori abusi. La sorella di quattro
anni riuscì a sopravvivere perché si nascose sotto un mucchio di vecchie
coperte, anche se questo le causò danni celebrali irreversibili.
2.
Trattandosi di bambine molto piccole
risulta poco plausibile il fatto che da sole, senza l’aiuto di una figura
adulta, potessero avventurarsi all’esterno della casa, in una città devastata
dalla guerra, e raggiungere, premesso che ne conoscessero l’esistenza, la Zona
di sicurezza. Inoltre, come loro stesse raccontarono, ogni giorno soldati
giapponesi entravano nella casa rubando tutto ciò che poteva essere loro utile,
quindi per loro era più sicuro restare nascoste all’interno della casa stessa,
piuttosto che uscire alla ricerca di un altro luogo in cui trovare rifugio ed
essere quindi catturate nelle vie di Nanchino.
3.
Quando Xia Shuqin riprese conoscenza
corse a rintanarsi, assieme alla sorella, nel rifugio antiaereo situato nel
giardino dell’abitazione, uscendo solo in rare occasioni, questo garantì loro
di sopravvivere per due settimane, evitando di essere scoperte dai soldati
nipponici.
4.
I cittadini che non abbandonarono
Nanchino, altri non erano che i più poveri tra i poveri. Probabilmente le
famiglie Xia e Ma appartenevano a questa categoria sociale, che mancava dei
mezzi necessari per poter fuggire da una città blindata, quindi furono costrette
a rimanere a Nanchino e sperare di riceve un trattamento umano da parte degli
invasori. Tale speranza derivava, in parte, anche dall’opera di volantinaggio
compiuta dall’aviazione giapponese. Volantini recanti messaggi di fiducia nei
confronti dei giapponesi, che avrebbero trattato con gentilezza i non
combattenti, spinsero parte della popolazione a rimanere nei propri quartieri,
nelle proprie abitazioni, anziché rifugiarsi nella Zona di sicurezza.
Prima
della fine del conflitto, nel marzo del 1944, le Nazioni unite istituirono
il Comitato d’indagine sui crimini di guerra; una specifica sottocommissione per l’Estremo Oriente
e l’Oceano Pacifico venne allestita a Chongqing.
Il Tribunale militare internazionale per l’Estremo
Oriente iniziò a operare a Tokyo il 3
marzo 1946. Nonostante gli imputati fossero solamente ventotto, il processo
durò due anni e mezzo e furono più di quattrocento le persone che vi
testimoniarono.
Le
maggiori accuse e la responsabilità di tali crimini di guerra ricaddero
sul generale Matsui Iwane. Durante la sua testimonianza cercò di giustificare
le azioni compiute dai soldati giapponesi, arrivando, in alcuni casi, a negarle
completamente. Pur di salvaguardare la reputazione della casa imperiale e dello
stesso imperatore Hirohito, Matsui Iwane affermò di essere disposto a morire per
loro. Così avvenne: il generale venne condannato a morte e, assieme ad altri
sette criminali di guerra, fu impiccato nel carcere di Sugamo a Tokyo.
Il governo degli Stati Uniti d’America, in cambio
della resa del Giappone, assicurò alla casa imperiale l’immunità dai processi,
per cui né l’imperatore Hirohito né il principe Asaka comparvero nel corso
delle udienze. Il ruolo che svolse l’imperatore del Sol Levante rimane, ancora
oggi, avvolto da una coltre di mistero. Al momento della resa, il governo
giapponese distrusse o falsificò la maggior parte dei documenti relativi
all’assedio di Nanchino. Questo rese particolarmente difficile provare se
Hirohito avesse approvato, pianificato o fosse stato almeno a conoscenza di
quanto accadde nella città cinese.
In Giappone, oggigiorno, continuano ad apparire
versioni contrastanti e spesso falsificate riguardanti le azioni compiuti dallo
Stato nipponico durante la Seconda guerra mondiale. Secondo una versione
revisionista, la nazione non ebbe alcuna responsabilità negli stermini di massa
avvenuti nel corso del conflitto. Questa visione continua a essere riportata
nei testi e nei libri di storia nipponici, i quali ignorano il Massacro di
Nanchino e ne danno una visione distorta, ad esempio attribuendo la colpa degli
stupri ai soldati cinesi che si infiltrano, in cerca di riparo, nella Zona di
sicurezza.
https://parentesistoriche.altervista.org/massacro-nanchino/
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