Lei ha appena sottolineato l’importanza dei libri di approfondimento giudiziario scritti da magistrati. Ma com’è possibile che l’unico ruolo di denuncia l’abbiano avuto in questo ventennio i libri-inchiesta scritti da giornalisti e addetti ai lavori? Perché la letteratura italiana non è riuscita ad esprimere né un documento generazionale, tipo Il garofano rosso di Vittorini, che spiegasse per esempio i tanti entusiasmi giovanili per il berlusconismo, né una critica radicale al sistema berlusconiano, sia pure in forma simbolica, sul modello di Conversazioni in Sicilia dello stesso autore? Perché questo black-out totale della letteratura su quanto è accaduto in Italia?
Questo secondo me non è un caso. E’ avvenuto perché i romanzi più avvincenti in questo ventennio li abbiamo scritti nelle aule giudiziarie. Gli scrittori italiani sono stati sopraffatti dalla realtà di una cronaca politico-giudiziaria così incalzante da superare davvero qualsiasi possibilità di sintesi e si rappresentazione narrativa. Non a caso, nell’ultimo ventennio, lo scrittore italiano più acclamato è stato il giornalista Roberto Saviano, un cronista che vive sotto scorta per aver scritto un romanzo che mescola cronaca e scrittura narrativa. Dalle stragi in poi, abbiamo vissuto una realtà così terribile che è andata assolutamente al di là di quella rappresentazione simbolica, pur inquietante, che Leonardo Sciascia aveva offerto nei suoi romanzi sulla corruzione del potere. Eppure romanzi come Il contesto e Una storia semplice mantengono una certa attualità, e raccontano molto bene l’incrocio tra mafia e potere. Noi, però, siamo andati oltre. Molto oltre. E oggi manca la figura di un intellettuale veramente indipendente, in grado di rappresentare le storture del berlusconismo in un’opera letteraria che sia un po’ la sintesi di quello che è accaduto nel paese. In realtà, oggi in Italia la figura di un intellettuale-guida manca del tutto. E, se devo essere sincero, pur avendo molto amato Sciascia, come ogni siciliano, l’intelligenza che mi manca di più oggi è quella di Pier Paolo Pasolini. Le sue riflessioni dedicate al potere, al Palazzo, alla forza rivoluzionaria della verità, la sua attenzione alle fasce più trascurate della nostra società; queste cose mancano. Pasolini è stato uno spartiacque nella cultura italiana. Sia da vivo che da morto, è l’autore che ha lasciato più il segno e il vuoto.
Perché nel ventennio appena trascorso neppure il cinema italiano è riuscito a produrre un’opera che denunciasse apertamente il lato oscuro del potere berlusconiano? Il Caimano di Moretti e Silvio Forever di Faenza sono le uniche eccezioni, nel cinema, in un panorama di assuefazione collettiva. E’ l’effetto del monopolio culturale delle case di produzione cinematografica? Oppure i cineasti italiani sono diventati omertosi?
Le due cose insieme. Il monopolio culturale c’è stato e continua ad esserci, per cui immagino sia molto difficile trovare un produttore che abbia voglia di finanziare opere politicamente impegnative e fuori dal coro: siamo davanti a un panorama di omologazione culturale indotta anche da un quadro di difficoltà operative. Quando i distributori cinematografici e i grandi gruppi editoriali fanno capo a un unico schieramento politico, diventa difficile fare opere cosiddette di “rottura”. Ma c’è pure una buona dose di assuefazione, questo non si può negare.
Antonio Ingroia – Io So – Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza
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