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giovedì 10 gennaio 2013

Lo Sapevate Che: Geni E Tumori...


I cacciatori del dna mutante tra nano medicina e staminali

Viaggio nel più grande centro di ricerca d’Europa, il campus dell’Istituto Firc di onocologia molecolare di Milano dove, grazie ai fondi privati raccolti dall’Airc, lavorano venti squadre di scienziati, ognuna dedicata a un mistero del tumore
I ricercatori sono 450 con una folta rappresentanza di stranieri da 24 paesi diversi

Milano
Dieci anni fa l’uomo imparò a leggere il suo dna. “Ora possiamo immaginare – dichiarò allora un entusiasta Bill Clinton – che per i nostri figli la parola cancro indichi solo una costellazione in cielo”. In questi stessi giorni nasceva a Milano l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), che ha proprio lo scopo di sfruttare la conoscenza dei geni per sconfiggere il cancro.
Anche se la costellazione è ancora lontana mentre la malattia è fin troppo presente, questi capannoni industriali di Milano trasformati in gigantesco laboratorio scientifico sono la prova che la lotta ai tumori non si combatte solo negli ospedali accanto ai malati, ma anche chinandosi sulle provette e strizzando gli occhi sui microscopi. Con ricercatori proveniente da ogni parte del mondo e studenti che non sono ancora laureati, ma hanno già i visi adulti e concentrati di chi ha una questione vitale da risolvere.
Sull’importanza della decifrazione del codice Enigma nella Seconda guerra mondiale invece dubita  le opinioni sono varie. Nessun invece dubita che la vittoria contro il cancro parta proprio da qui, dove la malattia si studia in provetta. All’Ifom sono al lavoro i reparti di intelligence incaricati di scoprire i punti deboli del nemico nella scala dell’infinitamente piccolo. E in queste trincee le truppe sono reclutate non solo tra i medici, ma anche tra biologi, informatici e – di questo fiore all’occhiello nel campus di Milano vanno particolarmente orgogliosi – ingegneri e fisici. A loro in particolare è affidato il compito di far decollare il laboratorio di nano medicina appena allestito. “ I farmaci per la chemioterapia – spiega Marco Foiani, che dell’Ifom è il direttore – viaggiano nel sangue e attraversano tutto il corpo.
Qui invece ci proponiamo di creare capsule minuscole che portano il farmaco direttamente nelle cellule malate”.
La sperimentazione delle nanotecnologie rappresenta solo l’ultima propaggine di questo centro di ricerca che un tempo ospitava gli stabilimenti della Boehringer e oggi è suddiviso in 20 gruppi di ricerca, corrispondenti ad altrettante strategie di attacco nei confronti della malattia. Una delle più recenti e rivoluzionarie è quella che cerca di capire il ruolo delle staminali – cellule dotate di grandi capacità proliferative – nel fornire benzina alla crescita dei tumori. La caratteristica di queste cellule di riprodursi senza mai stancarsi comincia a essere sfruttata in molti rami della medicina in cui è importante ricostruire un tessuto degenerato. Ma si rivela una vera calamità nel campo dei tumori. A gennaio uno studio condotto qui ha dimostrato che sono proprio le staminali malate a far nascere e sviluppare un cancro al seno. E tanto più alto è il numero di queste cellule, tanto più combattuta sarà la lotta per guarire. Lo hanno dimostrato i ricercatori guidati da Pier Paolo Di Fiore, Pier Giuseppe Pelicci e Salvatore Pece con uno studio pubblicato su Cell
“Ma resta sempre vero – spiega Foiani – che il cancro coincide prima di tutto con un danno del dna ed è fra i cromosomi che dobbiamo andare a guardare per trovare il bandolo della matassa. Una cellula malata infatti può accumulare nel tempo fino a 20mila mutazioni, cioè alterazioni e anomalie del dna. Ma all’inizio della cascata di eventi che provoca la malattia ci sono sempre i soliti geni”. Alcune decine di questi frammenti di dna sono stati individuati. “La lista dei colpevoli è ricorrente. E si ripete a prescindere dall’organo colpito”.
Il campus fondato dall’Ifom con l’Istituto europeo di oncologia, oltre a giocare sulle dimensioni (è il più grande centro di ricerca oncologico in Europa, ha 12mila metri quadri solo di laboratori e ospita 450 ricercatori, per il 57 per cento donne) può sfruttare l’abbraccio che lega  ricerca pura e ricerca medica. “Con lo Ieo collaboriamo da anni: I campioni dei pazienti vengono analizzati dai ricercatori del campus e in tempi brevissimi i risultati sull’efficacia delle terapie vengono trasmessi ai medici dell’ospedale” spiega Foiani. Mentre parla, un robot alle sue spalle sta stampando miliardi di cellule in centinaia di vaschette. “Ognuna di queste provette – spiega Foiani – contiene cellule in cui abbiamo indotto una certa mutazione genetica. A seconda del frammento di dna modificato, il farmaco chemioterapico agirà in modo differente. Il nostro lavoro è osservare il comportamento del medicinale per ognuna delle mutazioni. Molte di queste alterazioni possono essere infatti uguali a quelle indotte dal tumore”.
Di italiano a dire il vero l’Ifom non ha molto, a parte la collocazione fra i capannoni industriali intorno a piazzale Lodi. I finanziamenti pubblici qui sono pressoché assenti. Abbiamo un bilancio – spiega Foiani – di circa 2omilioni all’anno, di cui la metà spesi in tecnologia e apparecchi che devono essere sempre mantenuti all’avanguardia”. I fondi dell’Ifom provengono quasi esclusivamente dalle donazioni fatte dai privati all’Airc (l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro che ogni anno organizza raccolte fondi in tv o tramite la vendita delle “arance della salute”) e alla Firc (Fondazione italiana per la ricerca sul cancro).
Le retribuzioni degli scienziati – sia senior che giovani in formazione – sono equiparate agli standard internazionali e i criteri di selezione dei capi-progetto sono legati ai risultati scientifici. Risultato dell’equazione: 43 dei 200 scienziati stanziali sono stranieri, provenienti da 24 paesi diversi. La lingua franca nei laboratori è un inglese senza traccia di meneghino e l’età media dei ricercatori è di 33 anni, laddove l’ultimo rapporto sull’Italia dell’Osservatorio Observa per la scienza e la società a li fine febbraio ha calcolato che solo il 26 per cento dei ricercatori italiani ha meno di 34 anni.
“Il nostro lavoro – spiega per esempio Gabriela Grigorean, responsabile dell’unità di spettrometria di massa, cooptata dal Campus dell’Ifom e dell’Ieo dagli Stati Uniti – è osservare con degli strumenti molto avanzati gli effetti delle mutazioni genetiche del cancro sulle proteine dell’organismo. Nelle cellule malate si verificano delle aggregazioni anomale, e i nostri computer sono in grado di mostrarceli” spiega indicando sul computer un tracciato con dei picchi ricorrenti. Dana Branzei è invece di origine rumena, ha lavorato a lungo in Giappone e oggi a 35 anni dirige un progetto di ricerca sui meccanismi di riparazione del dna. “Cerchiamo di capire – spiega – come mai i cromosomi a volte perdano la loro stabilità e le alterazioni al loro interno possano risultare nell’insorgenza di un cancro”.
Dai paesi asiatici proviene buona parte dei ricercatori stranieri dell’Ifom, con in testa Giappone e India. E i progetti di reclutamento delle menti più brillanti puntano lontano non solo nello spazio, ma anche nel tempo. All’ingresso del centro di ricerca è stato infatti allestito un laboratorio destinato ai ragazzi delle scuole secondarie di primo e secondo grado. “non solo i nostri scienziati vanno a fare lezioni nelle classi – spiega Assunta Croce – ricercatrice e responsabile del progetto “Ifom per la scuola” attivo dal 2003 – ma invitiamo i ragazzi e i loro insegnanti a fare esperimenti qui, nel nostro laboratorio”. I giovani più appassionati frequentano stage estivi di due settimane. “ E alla fine – prosegue la Croce – devono redigere un poster e scrivere un articolo scientifico, come se si trovassero davvero in un vero congresso. Abbiamo verificato che la maggior parte di loro, all’università, decide poi di iscriversi a medicina o biologia”.
Le attenzioni nei confronti dei più giovani non finiscono qui. All’Ifom infatti (caso pressoché unico in Italia) esiste un laboratorio fatto apposta per le mamme. All’inizio della gravidanza, le ricercatrici devono essere allontanate da sostanze chimiche potenzialmente tossiche e raggi ultravioletti. Nel campus milanese, anziché ritirarsi a casa, si ritrovano nel “Lab G”, dove ogni cura è stata riposta nell’eliminare fonti di rischio per mamma e bambino e dove, in dieci anni di attività, si sono accumulati foto e disegni di una ventina di nuovi nati. Tutti bambini che promettono bene, perché la scienza l’hanno respirata fin dal grembo della mamma.
Elena Dusi – Salute. La Ricerca – Repubblica – 23-3-10

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