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venerdì 25 agosto 2017

Lo Sapevate Che: "Ma lei si sente ancora italiano?"...



È Una Bella Signora giovane, bionda e alta, con un bambino in braccio. Prende la parola per ultima, tra le persone che sono venute ad ascoltarmi. Siamo nella piazza della chiesa di Albissola dove presento il mio libro, un evento organizzato da Stefano Milano e dalla libreria Ubik di Savona. La sua domanda è chiarissima: “Perché ha preso la cittadinanza americana? Si sente ancora italiano?”. Non è la prima volta che qualcuno me lo chiede. Ma ai tempi di Barack Obama dietro alla domanda traspariva un po' di ammirazione nei confronti della mia seconda patria. Ora la stessa domanda si tinge d’inquietudine. Mi sembra d’intuire cosa c’è dietro: da una parte l’eterna crisi di autostima degli italiani pieni di sfiducia verso il loro paese; dall’altra il disgusto che suscita Dinald Trump. Comincio col dire che non si può scegliere il proprio passaporto a seconda di chi vince le elezioni ogni quattro anni (Trump fra l’altro le ha perse: la maggioranza ha votato per Hillary, contro di lui). Ricordo che io sono e resto prima di tutto italiano. Nonostante sia cresciuto all’estero fin da bambino, ho avuto due genitori innamorati e orgogliosi dell’Italia e non ho mai dubitato della mia identità profonda. Né sentivo complessi d’inferiorità verso i miei compagni di scuola tedeschi o francesi, cresciuti in culture più nazionaliste e arroganti della nostra. Fra Italia e America vige un accordo che consente la doppia cittadinanza e a me piace molto, non solo per ragioni di convenienza. C’è dietro l’idea che le nostre identità possono sommarsi e arricchirsi, e che non di sfondano sul principio della differenza e dell’esclusione. Non è così con altri paesi: ho amici tedeschi che acquistando la cittadinanza Usa si sono visti ritirare dalla Germania quella che avevano alla nascita; non parliamo della Cina, che aborrisce il principio di una “fedeltà” a due patrie. Inoltre mi è piaciuto il modo in cui gli Stati Uniti mi hanno accolto. Cinque anni di Green Card (permesso di residenza) danno il diritto automatico a chiedere la nazionalità: quest’America è una “fabbrica di nuovi cittadini” e non credo che basti un presidente a cambiare oltre mezzo secolo di società multietnica (le riforme che aprirono all’immigrazione sono del 194). La cosa più bella è l’esame di ammissione. Un test d’inglese. E poi: un altro esame sulla Costituzione degli Stati Uniti. Ho passato un paio di mesi a studiarmi la legge fondamentale del paese, oltretutto un esercizio utile per il mio lavoro. Lì dentro c’è la storia delle origini, ed è una legge viva, viene fatta rispettare dalla Corte Suprema. Mi piace il messaggio implicito che l’America dà al nuovo arrivato: sei bene accetto, puoi diventare uno dei nostri, a condizione che tu conosca e rispetti le nostre regole. Non è un fatto formale. Sul rispetto della legalità si gioca l’integrazione, riuscita, degli stranieri. L’Italia dovrebbe imparare. Da noi la cultura delle regole è già poco condivisa dagli italiani, continuamente oltraggiata. Inevitabilmente si opera una “selezione alla rovescia” come la descrisse il giudice Davigo: se in un paese è più facile delinquere impunemente, quel paese attira più criminali. La Costituzione americana e il Bill of Rights sono coevi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Le rivoluzioni americane e francese furono gemelle, nate dagli stessi ideali dell’illuminismo, la Filosofia della Ragione. Studiare quei testi per me è stata un’immersione nei valori dell’Occidente: c’è dentro il meglio di noi. È una civiltà della quale dobbiamo essere fieri. Stato laico. Stato di diritto, tutela delle minoranze, rifiuto delle discriminazioni in base al sesso, alla religione. Libertà di opinione e di espressione. Chi vuole vivere fra noi, e con noi deve condividere gli stessi principi. Non ce ne sono di migliori, altrove.   
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica - 19 agosto 2017 - 

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