La vergogna non c’è più. Quel sentimento che ci suggerisce di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induce a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, a farci piccoli e timorosi, sembra scomparso. Oggi la vergogna, ma anche il pudore, suo fratello gemello, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come tra le classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna è contestuale a un altro singolare fenomeno: l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a persone di notevole rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Si tratta di un fenomeno prodotto dalla televisione, da alcuni programmi di grande ascolto come il Grande Fratello.
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La vergogna costituisce un affetto fondamentale per descrivere la condizione contemporanea, un fattore decisivo per comprendere a che punto siamo arrivati nella distruzione dei valori e della singolarità. E questo non solo per la sua valenza annichilente – la vergogna distruttrice -, ma anche per l’aspetto importante che questa emozione riveste nella formazione dell’identità personale, come regolatore del sé, come strumento attraverso cui si prende coscienza, anche in modo doloroso, di ciò che si è rispetto agli altri. Con la sua ambivalenza la vergogna è infatti uno dei segnali che indicano la nostra irrinunciabile umanità
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Marco Belpoliti – Senza Vergogna -
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