Ma anche nel deserto della speranza si ricomincia a costruire il futuro
Io ho paura. La mattina mi sveglio, e la paura si alza con me. Da bambina mi dicevano “segui i tuoi sogni”, ma quali sogni se poi te li spezzano perché con una matita e un foglio di carta non potrai diventare un uomo o una donna di successo o, più semplicemente, un uomo o una donna che porta a casa uno stipendio? E così la creatività che ti apre la mente viene soffocata, trasformando persone con un sogno a tanti colori nel cuore in semplici tasselli grigi di un monto che ormai deve piegarsi a interessi solo mercantili.
Paola
Ho quasi 25 anni e mi sento in una generazione persa. Mi sento invecchiare, e non voglio appassire, voglio danzare e non essere protagonista di cori senza canzone. Non mi fido più di niente, di nessuno. Competizioni, insicurezza, tradimenti, corsa sfrenata e zoppa ai soldi, al successo, all’accessorio, al riconoscimento, di questo oggi si vive. Allora noi, tra i 20 e i 30 anni, se ascoltassimo i più giovani di noi, ci sentiremmo più forti per crescere. E arrivati ai 30 anni non tratteremo male tutti per colpa dei nostri sogni sconfitti.
Mia
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Non mi stupisco che qualcuno possa scriverle una lettera per dirle che non sapere dove andare è prerogativa dei giovani degli ultimi anni. Mi stupisce invece che lei, che da professore qualcosa dei ventenni la saprà, abbia scelto di dare voce al nichilismo preppy di una ragazza che cita Dante e allo stesso tempo si lamenta di una società che non le ha insegnato a sognare. La storia è piena di crisi, e anche di giorni in cui il mondo sarebbe dovuto finire e invece non è finito. Quello che vogliamo non è un astronave colorata che ci porta via, né uno smartphone colorato, né altre cose colorate che emettono luci e suoni. Ci sono sogni dappertutto.
Francesca
Il grande errore della generazione che ci ha preceduto non è stato quello di averci tolto la possibilità o la capacità di sognare, ma quello di averci trasmesso i sogni sbagliati, impedendoci di apprezzare quelli ben più concreti e proficui delle generazioni precedenti. In particolare: il sogno dell’emancipazione e dell’ascesa sociale per mezzo del proprio lavoro, come i nostri nonni emigrati in Svizzera, non per “fare fortuna”, ma più semplicemente alla ricerca di un lavoro di cui vivere. Era questo il “sogno” per la gran parte degli italiani fino a pochi decenni fa.
Questo dialogo tra giovani prende le mosse da due lettere pubblicate su questa rubrica il 9 e il 16 febbraio intitolate rispettivamente: Quando i diciottenni Hanno già le idee chiare e Vent’anni alla fine del mondo. Non si tratta di giovani nichilisti che non si pongono alcuna domanda perché non hanno neppure i mezzi culturali per porsela, ma di giovani che, al termine del loro percorso di studi, incontrano una realtà che distrugge il loro sogno che non è l’espressione di un desiderio da soddisfare senza sforzo, ma semplicemente l’esigenza di realizzare ciò per cui si è nati, o come direbbe Aristotele: il proprio “demone”, in cui consiste la felicità, che gli antichi Greci chiamavano per l’appunto “eu-daimonia”, la buona realizzazione di sé.
In questo impatto con la realtà nessuno rimpiange i propri sogni adolescenziali, e però, dopo averli “levigati e trasformati in qualcosa di più concreto” (Paola), vede che, nonostante questo sforzo, neppure così possono essere realizzati. E allora ricominciamo a sognare come fanno gli adolescenti, impariamo da loro a recuperare la forza del sogno che i “maestri e i capi attuali, 40enni incazzati e sfiduciati, sbriciolano, disilludendo noi che arriviamo pieni di sogni” (Mia).
Ma poi due lettere che non accettano questo scoramento, e rifiutano di attribuire le responsabilità alla generazione che li ha preceduti. “E’ vero che ci troviamo a pagare con tanto di interessi il debito pubblico che abbiamo accumulato a partire dagli anni 80” (Francesco), ma non possiamo rassegnarci perché nessuno ci risarcisce delle colpe che non abbiamo commesso. E quindi basta con questa passività, e con l’accusa ai nostri genitori di averci estinto il desiderio riempiendoci fin da piccoli di giochi e poi di vestiti, di vacanze, di telefonini e altro, perché “a vent’anni si è troppo vecchi per essere solo vittime della propria educazione” (Francesca).
Dopo aver letto queste lettere e altre ancora, dico anch’io agli adulti: imparate dai giovani, scoprite e apprezzate le risorse che hanno dentro, e la forza che li anima nonostante tutto. E nel confronto con loro sentite quanto siete disanimati, e non dimenticate che quel denaro e quel potere, a cui avete affidato la vostra identità e la vostra autostima, li dovrete lasciare, perché il futuro, in ogni caso, è loro.
Umberto Galimberti – Donna di Repubblica – 9-3-13
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