Temple Grandin
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Un pensiero s’insinua: non sarà che noi oggi viviamo in una società in cui il prevalere delle immagini rende obsoleto, o del tutto assente, il sentimento della vergogna? Non sarà che siamo diventati, per via di questo dominio incontrastato delle immagini fisse e in movimento – fotografia, cinema, televisione -, una società “autistica”, fondata sul sentimento della paura e incapace di provare vergogna in modo profondo? Una società che pratica la “vergogna sulla pelle” e non una “vergogna profonda” proprio per il prevalere delle immagini? Temple Grandin – si tratta solo di un ipotesi, naturalmente – non potrebbe essere il campione di un’umanità futura dominata dal “visivo”, e perciò incapace di provare altri sentimenti complessi? Una società la cui “lingua madre” è composta d’immagini non più di parole?
Agnes Heller ha attirato la nostra attenzione su un fatto: l’intensità della vergogna non dipende solo dalle norme, ma in gran parte dal rapporti che l’individuo ha con queste “norme”. Noi siamo soggetti allo sguardo degli altri, a quello che la filosofia ungherese chiama “l’Occhio ideale”, che un tempo era l’Occhio di Dio, poi è diventato quello della comunità o del gruppo d’appartenenza. L’individuo affetto dalla sindrome autistica non sembra sentire la presenza di questo occhio che l’osserva – i genitori, i compagni di scuola, i membri della propria comunità; si isola, non si relaziona, non possiede quell’aspetto visivo che la vergogna implica -, l’occhio degli altri sentito su di sé. Il suo “pensiero visivo” è rivolto verso il mondo, ma non comunica. Così è la televisione, strumento altamente passivo, e non certo attivo, “”visione da lontano”, come dice la parola. L’autistico possiede questa visione da lontano; vede, ma non possiede l’aspetto riflessivo, o autoriflessivo, che è implicito nella vergogna, ma nella cultura visiva della nostra epoca noi guardiamo, e basta.
Marco Belpoliti – Senza Vergogna
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