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mercoledì 26 febbraio 2014

Lo Sapevate Che: Le Nostre Parole Mentono Per Noi...


Scrive il sociologo inglese Stanley Cohen: “La negazione è un modo per mantenere segreta a noi stessi la verità che non abbiamo il coraggio di affrontare”oggi

Non pensa che oggi si ricorra alla “parola”  solo per falsificare la realtà? Che si ricorra a metafore ed eufemismi per non denunciare chiaramente quelli che sono  i “mali” della contemporaneità? La “parola” si è fatta maschera del “vero” e tutti o quasi sottostanno alla colonizzazione delle proprie menti da parte di un sistema sociopolitico decadente. Ora più che mai, ciascuno dovrebbe riflettere sul significato delle parole e andare  ad appropriarsene rileggendosi il Vocabolario della lingua italiana. Si dice per esempio “senza tetto” o “barbone” per non dire che le persone hanno perso il lavoro e quindi…Oppure “integrazione”: quale l’implicito? “Interculturalità”: su quali basi e perché? Potrei così continuare all’infinito, ma non ho intenzione di tediarla. Forse, ripartendo dalla “parola”, potremmo tutti incominciare a sfuggire l’incultura dilagante, assumendoci la responsabilità delle nostre azioni, evitando di adagiarci su figure di comodo che hanno solo l’obiettivo di rendere leggibile e visibile una realtà “resa cieca”. Oggi chi sono gli intellettuali, detentori della parola “vera” e quale sarebbe il loro compito? Forse quello di svelare alle masse narcotizzate la grande menzogna agitata sistematicamente  dal Sistema?
Cosa ne pensa?
Maristella Greco, Lecce

Oggi sappiamo cosa succede nel mondo non perché ne siamo testimoni, ma per l’informazione che i mezzi di comunicazione ci offrono. E qui il linguaggio fa i suoi giochi di verità e menzogna che lei giustamente denuncia con i suoi esempi: “Senza tetto”, “Barbone” sono parole che inducono un leggero sentimento di compassione, senza che da parte nostra ci sia un minimo di interessamento per la sorte di chi si trova in quelle condizioni. Al massimo una leggera indignazione verso quelle amministrazioni che non risolvono il problema, perché noi ci sentiamo esonerati dall’interessarci di quel disagio. “Integrazione” significa di fatto che l’immigrato deve diventare come uno di noi negli usi e nei costumi che ci caratterizzano, senza che noi si faccia un passo per comprendere i suoi usi e i suoi costumi. In fondo, anche se non abbiamo la spudoratezza di dirlo (anche se ogni tanto qualcuno lo dice), ci consideriamo la “civiltà superiore” e quindi riteniamo che sarebbe un bene che anche gli immigrati raggiungano il nostro livello.
Ma il luogo eminente della falsificazione tramite il linguaggio avviene a livello politico, quando una pulizia etnica si chiama “scambio di popolazione”, come se non comportasse alcuna sofferenza lo sradicamento della propria terra. Allo stesso modo, l’abbiamo sentito dire più volte, un massacro si chiama “danno collaterale”, dove è sottinteso “non l’abbiamo fatto apposta”, “non era nelle nostre intenzioni”, e per la morale dell’intenzione, che ancora non ha recepito il messaggio di Max Weber che ha proposto la morale della responsabilità, siamo tutti assolti. Non parliamo poi della guerra e delle sue atrocità che la nostra ipocrisia ha la spudoratezza di chiamare “missione di pace”.
La falsificazione non riguarda solo l’informazione politica o mediatica, ma si nasconde segretamente nell’anima di ciascuno di noi. Espressioni quali : “chiudere un occhio”, guardare dall’altra parte”, “mettere la testa sotto la sabbia”, “non sollevare un polverone”, “lavare i panni sporchi in casa propria”, che cosa significano se non “non voler vedere” e quindi non prender coscienza del male di cui pure abbiamo conoscenza, ma di cui neghiamo o attenuiamo l’esistenza?
Fatte le debite proporzioni, assomigliamo a quei tedeschi o a quei polacchi intervistati da Gordon  Horwitz (si veda Nell’Ombra della morte, Marsilio) che chiedeva se non sapevamo proprio nulla di quei campi di concentramento non lontani dalle loro case. Le risposte furono che si vedevano dei fumi, si sentivano delle dicerie, ma tutto questo li sollecitava a verificare quanto accadeva.
Freud chiama questa ipocrisia del linguaggio “negazione (Verneinung)”. Il risultato è una falsificazione del nostro apparato “cognitivo” – che misconosce ciò che in verità conosce – “emoziona!” – perché sterilizza i nostri sentimenti nell’indifferenza -, “morale” – perché esonera da ogni responsabilità – di “azione” – perché non promuove alcuna risposta a quanto si conosce. Come vede, la purificazione del linguaggio, prima che pubblica o politica, deve incominciare dentro di noi.

umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica 30-marzo-2013

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