Nell’ottobre
2016, per un imprevisto, Alberto Cavaglion non è riuscito a venire a Mestre a
presentarci la sua lettura di Giorgio Bassani come storico del fascismo,
dell’antifascismo e dell’ebraismo italiano del Novecento. Ci fa piacere che
questo incontro si realizzi sul nostro sito, per di più un 2 giugno. Come
sempre quando i saggi sono lunghi, presentiamo qui di seguito solo le prime
pagine, omettendo alcune note; per leggere la versione integrale del
testo, cliccare qui.
Intendevo essere uno storico, uno storicista, non già un raccontatore di
balle.
Giorgio Bassani
Premessa
Pur senza
arrivare ad aggredire il “raccontatore di balle”, molto si è tuonato contro
Bassani. Lecito chiedersi, celebrandosi il centenario della nascita, se la
responsabilità sia da ascrivere tutta – com’è d’uso – agli unici imputati
finora portati in giudizio, i letterati del gruppo 63, e non anche agli
storici. Il discorso non riguarda naturalmente soltanto Bassani. Ci si è
soffermati in genere poco, troppo poco, per esempio, su Calvino e Meneghello
storici della Resistenza, su Elsa Morante e Carlo Levi per la storia di Roma
prima e dopo l’occupazione tedesca. Lo stesso Primo Levi è stato indagato in
quanto testimone della politica di sterminio del Terzo Reich, piuttosto che non
come osservatore del carattere dell’italiano e delle peculiarità paradossali
dell’antisemitismo fascista. […]
E dire che la
fama di Bassani si consolidava contestualmente agli albori della storiografia
sul ventennio fascista. Sarà bene ricordare, in avvio, che la Storia
degli ebrei sotto il fascismo di Renzo De Felice, nel 1961, precede di
poco e in qualche modo rende possibile l’arrivo in libreria di romanzi come
il Giardino dei Finzi-Contini e Lessico famigliare di
Natalia Ginzburg. Per il desiderio di scrivere storie “veridiche” Bassani può
essere paragonato a Meneghello, ma ha dalla sua il merito di aver anticipato un
tema diventato oggi scottante, quello dei limiti (e degli abusi) della Memoria.
In procinto di
esplodere come l’ordigno sveviano con cui si chiude la Coscienza di
Zeno, affinché i posteri non dimentichino, Bassani colloca “l’urlo” cosmico di Geo Josz. Quell’urlo ci ammonisce ogni
volta che ci irrigidiamo in schemi preconcetti. Alla fine di Una lapide
in via Mazzini il grido “furibondo” di Geo esplode in un punto tale
che la città e tutti noi potremo udirlo “con orrore per secoli e secoli”.1
Il Professor
Ermanno “non vende fumo”
Bassani
affrontava in primo luogo una questione storiografica che creava turbamento: il
fascismo ebraico. Qualcuno che osasse infrangere il tabù non era mancato,
proprio nei mesi in cui Bassani concepiva la sua opera maggiore, ma lo aveva
fatto in modo scomposto. Per esempio, Guido Valabrega aveva sì esaminato il
caso degli ebrei torinesi della “Nostra Bandiera”, ma si era spinto troppo in
là, arrivando addirittura a metterli sullo stesso piano dei collaborazionisti
del Judenrat di Varsavia, dimostrando di essere mosso dal desiderio di creare
scandalo – e riscaldare animi già per altra via piuttosto surriscaldati –,
prima che dalla ricerca del vero.2
Nella
questione Bassani era coinvolto sul piano personale. C’è sempre stato chi gli
ha ricordato la sua partecipazione ai Littoriali della Cultura e dell’Arte nel
1937, le novelle pubblicate sulla terza pagina del “Corriere Padano”. La prima
volta che gli capitò di rispondere, passando all’attacco, fu proprio nel 1961:
Uscivo da una famiglia di questo tipo: ebraica e fascista. Ma sia ben
chiaro. Infinite altre famiglie ebraiche erano a quell’epoca come la nostra,
normali (e banali) come la nostra. Eravamo dei piccoli borghesi,
caratterizzati, anche noi, dagli stessi difetti, dalle stesse colpe, dalle
stesse insufficienze della contemporanea piccola borghesia moderata cattolica.
Sembrerà strano: eppure erano pochissimi, prima del 1938, gli ebrei italiani
che non fossero devoti di Casa Savoia, mentre il duce, che aveva conquistato
l’impero, rappresentava per molte delle nostre madri, zie e sorelle una specie
di idolo. Dopo il 1938, dopo le famigerate leggi razziali, quasi tutti
capirono, naturalmente. Ma prima di questa data fatidica, ripeto, fra gli ebrei
italiani dominava il conformismo più totale.3
Una
confessione così schietta non si trova nella memorialistica coeva. De Felice
era stato più cauto, per rispetto forse dell’Unione delle Comunità che aveva
commissionato la sua ricerca. Chi smaschera il conformismo sa che dovrà pagare
un prezzo salato. L’antistoricista Natalia Ginzburg si salvò, perché il
suo Lessico famigliare si svolge all’interno dell’antifascismo
torinese, e del resto Primo Levi non nomina nemmeno una volta il caso della
“Nostra Bandiera”.
La dolce
anestesia che nel ventennio mussoliniano aveva addormentato le coscienze non
esclude nessuno. Come svela, sempre nel Giardino, l’antisemitismo
“di sinistra” di Malnate (tema questo, sia detto per inciso, che in Italia, è
stato affrontato solo in anni vicinissimi a noi), così Bassani punta il dito
contro i cedimenti di un ex deputato socialista, l’onorevole Bottecchiari, “uno
che in apparenza non aveva mai chinato il capo”. Nemmeno lui, “ce l’aveva fatta
a passare senza danno, senza corrompere il suo carattere, la sua diritta e
fiera gioventù, sotto il torchio di quei decenni, dal ’15 al ’39, che avevano
veduto a Ferrara come dappertutto in Italia, la degenerazione progressiva di
ogni valore”.4
Chi meglio di
Bassani ha saputo raccontarci la contiguità tra ebraismo e fascismo, tra
fascismo e post-fascismo? Chi meglio di lui ha saputo metterci in guardia
contro l’ideologia di una finta Liberazione? Come a Roma Carlo Levi metteva in
libertà i “luigini”, così, nei dintorni di via Mazzini, a due passi dalla
lapide, nonostante l’urlo di Geo, ritornavano a passeggiare i topini (i tupìn),
per il colore grigio delle loro camicie, ma anche per il grigiore della loro
indole.5
Sotto una
prosa musicale, il coltello affilato di Bassani incide nella carne viva del
nostro passato, mostrando il trasformismo cinico, il perbenismo di fronte a
questioni innominabili come l’omosessualità nella creazione del dottor Fadigati
ne Gli occhiali d’oro, che precede di almeno un decennio Una
giornata particolare di Ettore Scola.
Le Storie
ferraresi sono “vite di fede e di passione”, alla maniera di Croce, in
un contesto in cui si ha chiara percezione del tramonto di un’epoca. La
consapevolezza di essere sopravvissuti non esonera dall’obbligo di interpretare
la realtà adoperando gli strumenti inattuali dello storicismo. In Bassani non
vi è ricerca del nuovo, ma una lunga fedeltà al passato. Non ritiene che per
studiare il passato prossimo esistano mezzi più idonei di quelli offerti dalla
tradizione: “In fondo cos’è che ha da fare l’ottimo storico? Proporsi, sì, come
ideale, il raggiungimento della verità, senza però mai smarrire per istrada il
senso dell’opportunità e della giustizia”.6 Lo
storico non emette sentenze, ma cerca di capire la natura umana. A darci una
parafrasi così cristallina, quasi da manuale, dello storicismo crociano è il
professor Ermanno Finzi-Contini.
Di Bassani
storico si può dire dunque, come prima cosa, ciò che dice del professor
Ermanno: “Non vende fumo”.7 Non
conosciamo la biblioteca vera di Bassani. Molte notizie le ricaviamo dai dorsi
dei volumi presenti negli scaffali delle case ebraiche primo-novecentesche che
ci presenta con precisione quasi maniacale. Un vero topos, questo,
del catalogo di titoli: fotografati con precisione, sono semplicemente libri
nominati. Autore, titolo. Se sarebbe improprio parlare di uno scrittore
bibliofilo, ingiusto sarebbe ignorare la dovizia di questi segmenti di una
bibliografia esposta su un immaginario leggio con il candore di chi ci vuole
avvertire di non rimanere alla superficie delle copertine e dei titoli.
Quei libri – o
quegli articoli – dobbiamo riaprirli sul serio, se vogliamo capire qualche cosa
di più. Evitando il bluff o la citazione snobistica, Bassani non conosce
censure ideologiche o di comune senso del pudore: ci guida nell’empireo dei
suoi modelli ideali, ma anche negli inferi di biblioteche “proibite”, come
quella dei genitori di Pulga in Dietro la porta: Afrodite di
Pierre Louys, Il giardino dei supplizi di Octave Mirbeau,
Guido Da Verona, Sesso e carattere di Weininger e altri testi
per l’epoca scandalosi.8
Nemmeno quando
analizza un semplice articolo di rivista, Bassani si adatta a diventare un
venditore di fumo. La precisione filologica, prima di tutto.
Trotskij e la
rivoluzione come gioco
In una delle
prime e più arcigne recensioni al libro di De Felice, criticando l’autore per
l’eccessiva generosità dei giudizi sull’antisemitismo mussoliniano, in breve
muovendo le stesse accuse che il protagonista del Giardino dei
Finzi-Contini muove a suo padre, giudicato troppo “buonista”, uno dei
nostri maggiori storici del secondo dopoguerra, Corrado Vivanti tende un filo
fra due libri usciti a breve distanza l’uno dall’altro:
In un recente romanzo di meritata fortuna, che ricostruisce ammirabilmente
certi ambienti ebraici italiani degli anni del fascismo, Giorgio Bassani presta
generosamente a Trotskij una “teoria generale” in base alla quale “il
capitalismo, in fase di espansione imperialistica, non può che mostrarsi
intollerante nei confronti di tutte le minoranze nazionali, e degli ebrei in
particolare, che sono la minoranza per antonomasia”. Il protagonista del
romanzo rimprovera pertanto al padre di ostinarsi a distinguere – nel 1938 –
fra Hitler e Mussolini, e di credere che questi “sia più buono” di
quello. Sarebbe evidentemente pedantesco volere qui ristabilire quale
sia stato il vero pensiero di Trotskij…9
“Pedantesco”
non è mai lo sforzo dello storico, nemmeno in una recensione. Per nulla
gratuita e tanto meno pedantesca era la citazione di Bassani, se solo si avesse
avuto la curiosità di andare a cercarla. In una frettolosa nota a piè di
pagina, il recensore osserva che quella “teoria generale”, nello scritto di
Trotskij, non esisterebbe, quando invece esiste, eccome.10
Converrà
largheggiare nella citazione, se si vuole comprendere la controversia fra il
padre, che nel romanzo sottovaluta la politica mussoliniana, ritenendola poco
pericolosa, e il figlio, che invece prevede tempesta, conscio degli oscuri
presagi di una alleanza fra nazismo e fascismo in nome della dottrina della
razza. Scriveva dunque Trotskij:
Le fascisme allemand, comme le fascisme italien, s’est hissé au pouvoir sur
le dos de la petite bourgeoisie, dont il s’est servi comme d’un bélier contre
la classe ouvrière et les institutions de la démocratie. Mais le fascisme au
pouvoir n’est rien moins que le gouvernement de la petite bourgeoisie. Au
contraire, c’est la dictature la plus impitoyable du capital monopoliste. Mussolini a raison: les classes intermédiaires ne sont
pas capables d’une politique indépendante. Dans les périodes de crise, elles sont
appelées à poursuivre jusqu’à l’absurde la politique de l’une des deux classes
fondamentales. Le fascisme a réussi à les mettre au service du capital. Des mots d’ordre comme l’étatisation des trusts et la
suppression des revenus ne provenant pas du travail, ont été immédiatement
jetés par-dessus bord dès l’arrivée au pouvoir. Au contraire, le particularisme
des «terres» allemandes, qui s’appuyait sur les particularités de la petite
bourgeoisie, a fait place nette pour le centralisme policier capitaliste.
Chaque succès de la politique intérieure et extérieure du national-fascisme
marquera inévitablement la poursuite de l’étouffement du petit capital par le
grand. […] Une fois le programme des illusions petites bourgeoises réduit à une
pure et simple mascarade bureaucratique, le national-socialisme s’élève
au-dessus de la nation, comme la forme la plus pure de l’impérialisme. L’espoir
que le gouvernement de Hitler tombera, si ce n’est aujourd’hui, demain, victime
de son inconsistance interne, est tout à fait vain. Un programme était
nécessaire aux nazis pour arriver au pouvoir; mais le pouvoir ne sert
absolument pas à Hitler à remplir son programme. C’est le capital monopoliste
qui lui fixe ses tâches. La concentration forcée de toutes les forces et moyens
du peuple dans l’intérêt de l’impérialisme, qui est la véritable mission
historique de la dictature fasciste, implique la préparation de la guerre; ce
but, à son tour, ne tolère aucune résistance intérieure et conduit à une
concentration mécanique ultérieure du pouvoir. Il est impossible de réformer le
fascisme ou de lui donner son congé. On ne peut que le renverser. L’orbite
politique du régime des nazis bute contre l’alternative: la guerre ou la
révolution ? Pour élever la nation au-dessus de l’histoire, on lui donne le
soutien de la race. L’histoire
est vue comme une émanation de la race. Les qualités de la race sont
construites indépendamment des conditions sociales changeantes. Rejetant «la
pensée économique» comme vile, le national-socialisme descend un étage plus
bas: du matérialisme économique il passe au matérialisme zoologique. La théorie
de la race, qu’on dirait créée spécialement pour un autodidacte prétentieux et
qui se présente comme la clé universelle de tous les secrets de la vie,
apparaît sous un jour particulièrement lamentable à la lumière de l’histoire
des idées. Pour fonder la religion du sang véritablement allemand, Hitler dut
emprunter de seconde main les idées du racisme à un Français, diplomate et
écrivain dilettante, le comte Gobineau. Hitler trouva une méthodologie
politique toute prête chez les Italiens.11
La “teoria
generale”, come si vede, è orientata in una direzione opposta a quella proposta
da De Felice. Il razzismo è un elemento congenito anche al fascismo italiano.
Va aggiunto, per pura pedanteria, questa volta sì, che Trotskij non aveva
elaborato la sua teoria “in elegante francese”, come Bassani nel romanzo fa
supporre al padre, bensì in russo, durante l’esilio in Turchia. Numerose
traduzioni del saggio circolavano prima dell’edizione parigina. L’originale è
datato Prinkipo, 10 giugno 1933. Tradotto in tedesco e poi in inglese era
apparso sul numero di ottobre 1933 di “The Modern Thinker”, ma Bassani lo
ignorava. Con titolo Qu’est ce-que c’est le nationalsocialisme, la
prestigiosa “Nouvelle Revue Française” lo traduce nel fascicolo datato febbraio
1934, dedicato al conte di Gobineau, che meriterebbe maggiore fortuna fra gli
studiosi dell’antisemitismo. Lecito ipotizzare che sia stato questo il tema
monografico della rivista ad aver attirato l’attenzione del curioso studente
ferrarese. Importante sarà tenere presente il contesto italiano in cui viene a
cadere la lettura di Bassani.
Quando Malraux
invita Trotskij a collaborare, le cose in Italia con Mussolini stavano per
prendere una diversa piega rispetto al passato. La prima vera campagna di
stampa antisemita italiana montò nel marzo 1934 in seguito agli arresti di
Ponte Tresa. L’arresto alla frontiera italo-svizzera di alcuni oppositori del
regime, in maggioranza ebrei, aveva fatto scattare qualche cosa di imprevisto.
Il giovane Bassani ne avrà avuto certo sentore. Noi non sappiamo quando
esattamente entrò in possesso della “nrf”, che sarà arrivata nelle sue mani
verosimilmente alcuni mesi dopo l’uscita in Francia (mentre la discussione
nel Giardino dei Finzi-Conti è fittiziamente ambientata
addirittura nel 1931). In quel fascicolo, fra l’altro, compare una postilla
scritta da Trotskij appositamente per l’edizione francese del saggio. È una
frase che rimarrà impressa nella memoria di Bassani, tanto è vero che la
riprenderà alla lettera, finita la guerra, in un suo poco conosciuto saggio di
storia, intitolato La rivoluzione come gioco, dove lo spunto è
dato, una seconda volta, dalla “teoria generale” di Trotskij: “La diagnosi
culminava nell’affermazione seguente: il tempo che ci avrebbe separati da una
nuova conflagrazione mondiale era da calcolarsi nel tempo medesimo che sarebbe
occorso alla Germania per riarmarsi”.12
Mentre
stroncava De Felice, Vivanti non poteva immaginare l’interesse di Bassani
storico per Trotskij e tanto meno che Bassani partecipasse alla discussione sui
temi dell’antisemitismo avviata quando ancora non tutta l’Italia era stata
liberata Importante è osservare come Bassani, insieme a Giacomo Debenedetti
in 16 ottobre 1943, iniziasse a interrogarsi su una tragedia in
atto. […]
Rimangono in
conclusione due dati oggettivi da far emergere. Il primo riguarda l’intuito di
uno scrittore che non si accontentava di interpretazioni frettolose, che si
informava, che sempre allargava gli orizzonti delle proprie letture e,
soprattutto, sapeva esercitare, con disinvoltura di storico vero, la critica
delle fonti. Egualmente importante il secondo dato. La tesi di Bassani,
filtrata attraverso Trotskij, andava nella direzione auspicata dai critici più
severi di Renzo De Felice. Da storico a storico, a essere biasimato, per non
aver compulsato una fonte importante come le annate della “nrf”, avrebbe dovuto
essere De Felice, non Bassani, che per mezzo di Trotskij, inchiodava il
fascismo alle sue responsabilità, senza attenuanti.
https://storiamestre.it/2017/06/bassani-storia-e-paesaggio/
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