Nel panorama dei cosiddetti anni di
piombo, il 1977 aveva segnato una decisa svolta verso lo scontro violento
sul piano politico e sociale, combattuto tra i gruppi eversivi di sinistra e di
destra e tra questi e le forze dell'ordine. Il '78 non era iniziato con
migliori auspici: la sera del 7 gennaio si era consumata la strage di
Acca Larentia, in cui avevano perso la vita tre giovani del Movimento
Sociale.
Sul piano politico c'era una situazione
instabile, che a meno di due anni dalle elezioni aveva già portato alla caduta
del governo monocolore della Democrazia Cristiana, guidato da Giulio Andreotti.
Di fronte a quest'impasse e per dare una risposta convincente al Paese,
attraversato da una profonda crisi sociale, il presidente della DC Aldo
Moro sostenne l'ipotesi di un governo di solidarietà nazionale, con la
partecipazione dei comunisti.
Si trattava di un gesto politico di
considerevole portata, i cui echi oltrepassarono i confini nazionali. Il PCI
del segretario Enrico Berlinguer si diceva pronto al compromesso
storico, rivendicando lo strappo con Mosca. Le resistenze però erano forti
sia all'interno della DC, sia tra gli alleati internazionali dei due principali
partiti italiani.
Da un lato gli USA timorosi che, nell'ottica
della guerra fredda, un partito filosovietico al governo avrebbe potuto minare
i piani militari della NATO. Dall'altro l'URSS giudicava tale prospettiva una
forma di emancipazione dal modello sovietico, in favore di quello americano. In
questo scenario destò molti sospetti il coinvolgimento di Moro nello scandalo
Lockheed, dal nome dell'azienda americana che ammise di aver pagato
tangenti a politici e militari stranieri, per vendere a Stati esteri i propri
aerei. Ne uscì con una piena assoluzione il 3 marzo, tredici giorni prima che
accadesse l'irreparabile.
La mattina di giovedì 16 marzo Moro era atteso
alla Camera, dove Andreotti avrebbe dovuto presentare il nuovo governo con il
sostegno, per la prima volta, dei comunisti. Alle 9 scese dalla sua abitazione
romana e salì a bordo della Fiat 130 blu di ordinanza, seguita dall'Alfetta
bianca della scorta. All'incrocio tra via Fani e via Stresa,
ad attenderlo un commando di 19 brigatisti (11 secondo un'altra versione),
armati di mitragliette automatiche e pronti a far scattare un agguato in pieno
stile RAF (gruppo terroristico tedesco di estrema sinistra).
Bloccando il corteo con due auto all'inizio e
alla fine dello stesso, e ostruendo le vie di fuga laterali con altri veicoli
parcheggiati, i terroristi entrarono in azione facendo fuoco sulla scorta e
sulle due guardie del corpo dell'auto blu. La fotografia che si parò davanti
alle prime persone accorse sul posto era agghiacciante: sulla strada un tappeto
di bossoli e sangue, nei due abitacoli crivellati di colpi i corpi senza vita
di Domenico Ricci (appuntato dei Carabinieri), Oreste
Leonardi (maresciallo dell'Arma), Francesco Zizzi (vice
brigadiere di Polizia), Giulio Rivera e Raffaele
Jozzino (entrambi agenti di Polizia).
Passarono 48 ore prima che le Brigate
Rosse rivendicassero l'attentato e il sequestro di Moro, attraverso
una foto dello stesso, ritratto con alle spalle la famigerata "stella a
cinque punte" e un comunicato in cui si annunciava che il presidente della
DC sarebbe stato processato da «un tribunale del popolo». La
reazione dei cittadini si tradusse in cortei e manifestazioni per gridare il
proprio dissenso alla violenza brigatista.
Le istituzioni reagirono approvando una serie di
"leggi speciali" volte a dare più poteri alle forze dell'ordine e
agli investigatori nell'attività di contrasto al terrorismo. Sul piano politico
emersero forti divisioni tra chi era per trattare con i sequestratori, come il
PSI, e la maggioranza (DC e PCI in testa) che era invece per la linea
dura. Nonostante il dispiegamento di forze, con migliaia di blocchi
stradali e perquisizioni, le indagini sembravano non portare da nessuna parte.
Nei 55 giorni che seguirono ci fu uno
stillicidio di comunicati delle BR, ipotesi giornalistiche e polemiche
politiche, con il blocco moderato che accusava l'area comunista di essere
contigua agli ambienti brigatisti. Il conflitto sociale non si fermò e alcuni
episodi, come l'omicidio di due giovani di sinistra del centro sociale
"Leoncavallo", lo esacerbarono ulteriormente. Nel frattempo le
speranze di vedere liberato Moro si facevano sempre più deboli, nonostante gli
accorati appelli di personalità di rilievo mondiale, come papa Paolo VI e
il presidente degli Stati Uniti d'America, Jimmy Carter.
Il 6 maggio, le BR comunicarono l'esecuzione
della condanna a morte. Tre giorni dopo il corpo di Moro fu rinvenuto in via
Caetani, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata,
simbolicamente, tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù (dove avevano
sede rispettivamente il PCI e la DC). Della strage di via Fani e dell'omicidio
Moro furono accusati e processati 14 brigatisti, la maggior parte dei quali
oggi è in regime di semilibertà.
Inchieste giornalistiche successive fecero
emergere il possibile coinvolgimento nella vicenda di altri soggetti, tra cui
la loggia P2, la rete clandestina della NATO e i servizi segreti di
diversi paesi. A supportarle gli innumerevoli ritardi e punti oscuri nelle
indagini svolte all'epoca dei fatti e alcuni aspetti nella dinamica del
sequestro e della prigionia, secondo alcuni, non riconducibili al modus
operandi tipico delle Brigate Rosse.
https://www.mondi.it/almanacco/voce/248002
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