Una seconda
guerra di mafia (la prima risale al 1962) aveva insanguinato la
Sicilia all'inizio degli anni Ottanta. Gran parte delle famiglie era stata
decimata dalla furia omicida dei Corleonesi, capeggiati dal boss
Salvatore Riina, e in questa mattanza erano stati coinvolti anche uomini di
legge e delle istituzioni che avevano cercato di contrastare il fenomeno. In
particolare, l'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa,
nel 1982, aveva generato grande sdegno nell'opinione pubblica, motivando
l'azione di alcuni magistrati riuniti nel pool antimafia dal giudice Antonino
Caponnetto.
Tra questi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano
impegnati a tentare un nuovo approccio nelle indagini. Lo scenario in cui si
muovevano era contraddistinto dalla totale negazione del fenomeno mafioso o,
nel migliore dei casi, di una sottovalutazione di esso. Un'inversione di
tendenza c'era stata con la legge 646/1982 che introduceva il reato di
associazione mafiosa, approvata otto mesi dopo il brutale assassinio del suo promotore, Pio
La Torre.
Di qui si arriva alla preparazione del processo. A mettere sulla strada giusta
il giudice istruttore Falcone sono i "pentiti", uno in particolare e
il primo della storia: Tommaso Buscetta. Soprannominato il
"boss dei due mondi" per la sua lunga permanenza negli Usa, Buscetta
è stato per 40 anni in contatto con tutti i vertici delle famiglie mafiose,
pagando a caro prezzo il suo allontanamento (due figli uccisi insieme ad altri familiari).
Le sue rivelazioni, raccolte in 400 pagine di interrogatorio, svelano al
magistrato ramificazioni e segreti della cupola siciliana.
Le richieste di rinvio a giudizio sono oltre 400 e per far fronte a questo
numero si decide la costruzione di un'aula bunker a ridosso del
carcere palermitano dell'Ucciardone. Viene realizzata una fortezza
inespugnabile, con porte blindate e vetri antiproiettile. E' qui che la mattina
di lunedì 10 febbraio si apre il più grande processo che sia mai stato
realizzato contro la criminalità organizzata.
I numeri sono impressionanti: 474 imputati, di cui 221 detenuti, 59
a piede libero e 194 giudicati in contumacia, perché latitanti. Ad essi si
aggiungono oltre 900 tra testimoni e parti lese e 180 difensori, senza contare
i 600 giornalisti che seguono l'evento. Motivo per cui vengono adottate misure
di sicurezza eccezionali, in primis l'impiego di tremila agenti a presidiare
l'area, al fine di evitare attentati e fughe.
Tutto è stato studiato nei minimi dettagli per evitare che il procedimento si
blocchi. In particolare, per scongiurare il rischio di defezioni, vengono
nominati due pubblici ministeri, due presidenti di corte, due giudici a latere,
mentre i giudici popolari sono sedici. Di fronte a loro centinaia di imputati
seduti tra i banchi o rinchiusi dietro le sbarre, cui vengono contestati: 120
omicidi, traffico di droga, estorsione e il nuovo reato di associazione
mafiosa.
La tensione regna fin dalle prime battute e da parte degli accusati ogni
pretesto è buono per contestare e rallentare il dibattimento. Gli osservatori
studiano i loro comportamenti e dalle loro reazioni s'intuisce il peso
"politico" dei personaggi chiamati a rispondere: in religioso
silenzio quando parlano i boss che contano; urla e contestazioni di fronte ai
collaboratori di giustizia, ritenuti dei "traditori". Lo scenario
muta profondamente all'annuncio dell'ingresso di Buscetta.
Per decisione del presidente di lui viene ammessa solo la ripresa televisiva di
spalle e delle mani, procedura estesa anche agli altri pentiti. Comincia a
parlare confermando quanto rivelato in precedenza al giudice Falcone, e
pronunciando per la prima volta in un tribunale l'espressione «Cosa
nostra». E' così che gli affiliati chiamano l'organizzazione, suddivisa in
famiglie, ognuna con il nome del rione palermitano o del comune della provincia
posti sotto il proprio controllo. Al vertice della piramide c'è la «commissione»,
formata dai «capimandamenti» espressi da tre famiglie.
La sua deposizione va avanti per una settimana e tra i punti salienti toccati,
c'è l'escalation di violenza imputabile alla crescente tensione tra Corleonesi e
vecchie famiglie del capoluogo siciliano. Messi con le spalle al muro, boss
come Pippo Calò, Luciano Liggio e Michele Greco passano al contrattacco,
cercando di screditare Buscetta ma senza fortuna. Altrettanto preziose sono le
rivelazioni di altri due pentiti, Salvatore Contorno e Vincenzo Sinagra, grazie
ai quali si viene a sapere che molte delle persone scomparse sono state
assassinate dalla mafia e sciolte nell'acido per cancellare ogni traccia.
Particolari macabri che colpiscono i presenti e l'opinione pubblica nazionale.
Il processo va avanti per due anni circa e il 16 dicembre 1987 arriva la
sentenza. Su 474 imputati, 360 vengono condannati e tra questi ci sono
pericolosi boss latitanti, come Riina e Bernardo Provenzano,
catturati rispettivamente nel 1993 e nel 2006. In appello e in Cassazione le
condanne si riducono a 60, tra la delusione di Falcone e Borsellino che
cominciano a sentirsi abbandonati nella loro lotta.
Gli attentati di Capaci e via D'Amelio nel 1992 non riescono a
cancellare i risultati delle loro inchieste e del conseguente Maxiprocesso che
vanno ben oltre le condanne effettive: da qui in avanti nessuno può più
ignorare l'esistenza di "Cosa nostra" e sottovalutarne la forza
pervasiva nel tessuto politico, economico e sociale.
https://www.mondi.it/almanacco/voce/198006
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