Premessa: Odio I centri commerciali. Ne detesto
l’odore, il rumore, i colori, la filosofia. Mi stordiscono, mi soffocano e mi
ricordano contemporaneamente il luna park e la prigione, o una loro mostruosa
sintesi. Di solito li evito, perché nei centri commerciali tiro fuori l peggio
di me. Però quello si chiama “shopping district”, ed è stato progettato da Zaha
Hadid, che è l’architetta più famosa del mondo ed era anche laureata in
Matematica. E poi lì ci sono
due grattacieli bellissimi che non ho ancora visto da vicino e, da milanese, mi
pare imperdonabile non conoscere quell’intervento che descrivono come
“rigenerazione urbana”. Così una domenica mattina decidiamo di avventurarci
nella zona ovest della città, attirando i figli con la prospettiva di un
irrituale cinema all’ora di pranzo perché, di ds, nei centri commerciali si può
fare tutto, persino vedere un film. A un tratto prendo coscienza che a casa ci
manca lo zucchero e comunico ai quattro maschi l’intenzione di avventurarmi nel
supermercato al piano di sotto. “Intanto mangiamo qualcosa”, dice mio marito
mentre il piccolo chiede una crepe, il medio una pizza e il grande del sushi,
ben consapevoli, nonostante la giovane età, dell’infinitezza dell’offerta gastronomica
di quella che lì dentro hanno ribattezzato “food hall”. Io sono giù, alla
ricerca dello zucchero, persa nel mezzo della cosiddetta “shopping experience”,
tanto maestosa quanto disorientante, quando una voce maschile a volume
altissimo avverte che “Si sta verificando una possibile situazione di
emergenza”, e ci invita ad attendere istruzioni. Intorno a me silenzio, sguardi
persi, adrenalina. Intanto la voce ripete lo stesso messaggio, una, due, dieci
volte. Prima che la paura si faccia panico, in balia di pensieri casuali e
vorticosi, decido che non starò ad aspettare sottoterra istruzioni da una voce
metallica. E, in una sincronia telepatica, decine di persone come me si
precipitano verso la scala mobile accalcandosi in direzione dell’uscita. Una donna
alle mie spalle grida sopra la sirena dell’allarme: “Qualcuno spara!”. Dice sul
serio? Scherza? È possibile che qualcuno apra il fuoco in mezzo a tutta quella
gente? Certo che l è. Non sarebbe la prima volta. Per qualche istante è solo
terrore. E in quel distillato purissimo di angoscia, panico e lucidità, mi
scaravento all’esterno, il cellulare in mano, nella testa solo un’immagine: i
quattro uomini della mia vita lì dentro, in pericolo, lontani da me per colpa
di n chilo di zucchero. Devo rientrare subito. Devo proteggerli. In un delirio
apocalittico immagino me stessa, martire eroica, fare da scudo ai loro corpi e
salvare loro la vita ma non la mia. Dove si trovano Dallo spazio antistante il
centro commerciale, in mezzo a uno sparuto gruppo di avventori disorientati, chiamo
mio marito. Il numero squilla a vuoto. Riprovo ancora, ancora e ancora. Niente.
L’economista marxista barese ha un pessimo rapporto con il telefono e la sua
risposta, non la sua sordità, è l’eccezione. Io lo so bene, eppure la sua noncuranza
mi pare, in quel frangente, inequivocabile presago di tragedia. C’è
un’emergenza, penso. Perché non mi parla? Perché non mi chiama? Sono atterrita,
impotente e ignara. Sono i tre minuti peggiori della nostra esistenza e lui non
sente il cellulare. “Il solito test. All’ora sbagliata”. Una voce alle mie
spalle. Un ragazzo con la divisa della piadineria fa capolino da una porta di
servizio. Sta fumando, l’aria scocciata di chi la sa lunga. Torno dentro, le
mani continuano a tremare, il cuore non ha ancora ritrovato il suo posto. Li
avevo persi, li ritrovo placidi, seduti intorno a un tavolo rotondo. Ognuno
mangia un cibo diverso. Non si sono accorti di niente. Loro.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 26
maggio 2018 -
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