Tutto mi porta a pensare che più passa il tempo passa più la gente si chiude a riccio
egoisticamente, e ognuno rema e pensa al proprio piccolo
mondo fatto di abitudini troppo spesso legate a una spropositata attitudine al
consumismo sfrenato. Una volta che l’insicurezza economica viene a intaccare
quella sfrenatezza di bisogni inutili sopraggiunge la depressione psicologica e
la paura di non avere più lo stesso passo nelle spese ci spinge a ripararci nei
nostri gusci, evitando di affrontare veramente le reali necessità
dell’uomo. Dario Olivastrini dario.olivastrini@alice.it
C’E’ Una Via a
Milano che al sabato è infrequentabile per il gran numero delle persone che la
affollano, spinte dalla pulsione incontenibile di acquistare qualsiasi cosa
come rimedio momentaneo alla depressione. Nonostante l’apparente vivacità della
folla che la percorre e lo scintillio della sequenza ininterrotta dei negozi
che espongono la loro merce, io chiamerei quella strada la “via dei depressi”.
Ma forse il mercato, che ci visualizza solo come produttori e come consumatori,
quindi come funzionari delle merci, ha bisogno della nostra depressione per
poter funzionare, crescere, aumentare il fatturato. Fin dove? Il programma
delle Nazioni Unite per lo sviluppo ci informa che noi occidentali che siamo il
17 per cento della popolazione mondiale, per mantenere l’attuale tenore di vita
abbiamo bisogno dell’80 per cento delle risorse della terra. È evidente che una
simile sproporzione non può durare a lungo, e ciò nonostante da ogni parte ci
dicono che dobbiamo crescere e per crescere dobbiamo aumentare i consumi. Non
so più da chi, ma di recente ho sentito o letto che solo un pazzo o un
economista può sostenere una simile ipotesi, per cui convengo con il poeta e
romanziere Charles Bukowski là dove scrive: “Il capitalismo è sopravvissuto al
comunismo. Bene. Ora divora se stesso”. Tra le contraddizioni con cui il
capitalismo, divenuto ormai la forma mondiale dello scambio, divora se stesso
c’è La circolarità produzione-consumo, per cui se non si consuma non si
produce, e se non si produce si perdono posti di lavoro e i relativi stipendi,
con conseguente riduzione del numero delle persone che possono acquistare e
ulteriore depressione dell’economia. Siamo quindi costretti a un consumo
forzato, anzi, dopo le cose che abbiamo detto, consumare diventa quasi un
dovere etico. Il consumo non è la fine del prodotto, ma piuttosto il suo fine.
La data di scadenza non l’hanno solo i prodotti alimentare, ma tutti i prodotti
dai frigoriferi alle lavatrici, dal computer ai cellulari, che nei loro
ingranaggi hanno un sistema di autodistruzione, in modo che concludano il più
rapidamente possibile la loro esistenza. Infatti il ciclo produzione-consumo
non può attendere la fine naturale di un prodotto che per vetustà diventa
inutilizzabile, ma il prodotto deve essere pensato fin dall’inizio in vista
della sua più rapida inutilizzabilità. Quando il tecnico che chiamiamo per
riparare il nostro frigorifero ci dice che il pezzo di ricambio costa quasi
come acquistare un frigorifero nuovo, sta enunciando la grande legge del consumismo
che consiste nel portare le cose nel modo più rapido possibile al niente. E
questo è nichilismo puro, anche se nessuno lo vuole ammettere. Il consumismo e
il nichilismo a esso sotteso hanno due potenti alleati. Il primo è la moda
ideata per far invecchiare nel modo più rapido possibile tutte le cose, non nel
senso che le rende inutilizzabili, semplicemente le rende “socialmente
inadatte”, per cui se anche il nostro telefonino funziona perfettamente, dopo
che ne sono usciti di migliori che fanno mille cose di più, non è più idoneo al
nostro prestigio. Facendosi gioco del tempo la moda afferma il diritto assoluto
del presente, dell’eterno presente, per cui quello che era di moda l’anno
prima, l’anno dopo non lo è più. Principio della distruzione, nichilismo
garantito, ottimo per il mercato. Il secondo alleato del consumismo è la
pubblicità che non produce beni, di cui siamo già saturi ma produce bisogni. E
quando gli operatori di mercato attestano che il bisogno è abbastanza diffuso e
sentito, allora la pubblicità offre il bene che dura finché non saranno
prodotti altri bisogni. A questo proposito, il più grande pubblicitario del
secolo scorso, Frédéric Beigbeder, un giorno prese a riflettere sulla sua
professione e scrisse: “Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo.
Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose
che non avrete mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che
non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la
precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera
la vostra felicità, perché chi è felice non consuma”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 16
giugno2018 -
Cambiare il mondo? Iniziamo a cambiare noi stessi, gia sentita ma va bene comunque.
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