Il Mio Primo Capo, quando approdai fresca di laurea nel
mondo del lavoro, aveva trent’anni ed era il responsabile del trading sui
derivati di una banca d’affari. La sua fama lo precedeva. Un genio al servizio
della finanza, lo definivano. Una macchina da soldi, dicevano di lui. Lo
coprono d’oro perché lui copre d’oro la banca, aggiungevano con il rispetto
ossequioso e ammirato di certi ambienti paludati. Il mio posto era accanto a
lui nella sala operativa. Lo osservavo di sottecchi con curiosità e soggezione.
Algido e cinico, parlava pochissimo ma la sua intelligenza era luminosa. Pur
apprezzando la sua generosità nell’insegnarmi un mestiere da cui sarei fuggita
dopo pochi mesi, avevo la netta impressione di dover tenere da lui una distanza
di sicurezza, come da un ordigno ad orologeria, la cui inevitabile seppur
casuale deflagrazione sarebbe stata devastante. Era un torrido agosto milanese
e un giorno finalmente accadde quello che, con l’irrazionalità di un istinto
primordiale, aspettavo dal primo giorno. Lui andò su tutte le furie. La sua ira
fu cieca ed esplosiva. Muto e trasfigurato, prese la sedia. La sollevò e la
scaraventò contro il muro con la violenza e l’arroganza di chi non sottostà
alle leggi di tutti gli altri. Dopo, sotto il mio sguardo incredulo e
atterrito, tornò al suo posto come se nulla fosse successo. Intorno, un
silenzio sospeso, impaurito e deferente, persino da parte dei superiori che
tolleravano di buon grado quelle intemperanze, considerandole pittoresche. Era
un ambiente quasi prettamente maschile in cui la rabbia, non solo del mio capo,
godeva di uno speciale salvacondotto, in quanto, evidentemente, necessaria
espressione di genere. In, quei mesi tesi ad estenuanti, quando lo stress
superava la soglia di guardia, mi ritiravo di nascosto in bagno. E piangevo.
Poi mi lavavo la faccia e tornavo al fianco del mio facinoroso superiore, vergognandomi
di quella debolezza tanto lontana dai suoi teatrali scatti d’ira. Era così che
funzionava tra adulti? Gli uomini si infuriavano con orgoglio e le donne
piangevano con imbarazzo? Me lo domandavo spesso, in quel tempo di prime volte.
Per fortuna, negli anni, ha scoperto che non è così, non sempre, non
necessariamente. L’altro giorno mio figlio maggiore, con la perfida gratuita e
implacabile degli adolescenti, è stato orrendo con i fratelli che gli avevano
appena mostrato affetto. Eravamo in mezzo alla strada e ho perso il controllo.
Sproloquiando di legami e di rispetto, gli ho urlato di consegnarmi il
cellulare. Improvvisamente, con il suo telefonino in mano, mi sono ricordata
del lancio di una sedia, e solo un rigurgito di autocontrollo mi ha impedito
fargli fare la stessa ingloriosa fine. C’è un piacere catartico in un’esplosione
di rabbia. C’è un’impudica e inaccettabile violenza nella liberazione dei propri
istinti oscuro. Quando la mia rabbia si è placata, quando il suo cellulare
requisito è stato messo in salvo nella mia borsa, quando il silenzio è calato
tra di noi e le mani hanno smesso di tremarmi, i miei figli mi hanno guardato
atterriti. “È stato come quella volta
che ci hai distrutto il Power Ranger verde e io avevo quattro anni”, ha
mormorato incredulo il figlio di mezzo, ora dodicenne. Non era la prima volta. Perché
anche la furia femminile può spiegare la sua potenza di fuoco. Eppure, anche
oggi che la conosco e talvolta la pratico, la rabbia continua a farmi paura. Le
cose, mi dicono, sono cambiate in quell’ambiente, ora che la finanza e i suoi
virili guru hanno smesso di dominare il mondo. L’esplosione di rabbia non è più
contemplata nei codici di condotta mentre una lacrimosa débacle non si nega a
nessuno. Forse trovarsi a metà strada ci renderebbe tutti migliori.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 23 giugno
2018 -
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