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giovedì 28 giugno 2018

Lo Sapevate Che: Quel piacere catartico di perdere il controllo...


Il Mio Primo Capo, quando approdai fresca di laurea nel mondo del lavoro, aveva trent’anni ed era il responsabile del trading sui derivati di una banca d’affari. La sua fama lo precedeva. Un genio al servizio della finanza, lo definivano. Una macchina da soldi, dicevano di lui. Lo coprono d’oro perché lui copre d’oro la banca, aggiungevano con il rispetto ossequioso e ammirato di certi ambienti paludati. Il mio posto era accanto a lui nella sala operativa. Lo osservavo di sottecchi con curiosità e soggezione. Algido e cinico, parlava pochissimo ma la sua intelligenza era luminosa. Pur apprezzando la sua generosità nell’insegnarmi un mestiere da cui sarei fuggita dopo pochi mesi, avevo la netta impressione di dover tenere da lui una distanza di sicurezza, come da un ordigno ad orologeria, la cui inevitabile seppur casuale deflagrazione sarebbe stata devastante. Era un torrido agosto milanese e un giorno finalmente accadde quello che, con l’irrazionalità di un istinto primordiale, aspettavo dal primo giorno. Lui andò su tutte le furie. La sua ira fu cieca ed esplosiva. Muto e trasfigurato, prese la sedia. La sollevò e la scaraventò contro il muro con la violenza e l’arroganza di chi non sottostà alle leggi di tutti gli altri. Dopo, sotto il mio sguardo incredulo e atterrito, tornò al suo posto come se nulla fosse successo. Intorno, un silenzio sospeso, impaurito e deferente, persino da parte dei superiori che tolleravano di buon grado quelle intemperanze, considerandole pittoresche. Era un ambiente quasi prettamente maschile in cui la rabbia, non solo del mio capo, godeva di uno speciale salvacondotto, in quanto, evidentemente, necessaria espressione di genere. In, quei mesi tesi ad estenuanti, quando lo stress superava la soglia di guardia, mi ritiravo di nascosto in bagno. E piangevo. Poi mi lavavo la faccia e tornavo al fianco del mio facinoroso superiore, vergognandomi di quella debolezza tanto lontana dai suoi teatrali scatti d’ira. Era così che funzionava tra adulti? Gli uomini si infuriavano con orgoglio e le donne piangevano con imbarazzo? Me lo domandavo spesso, in quel tempo di prime volte. Per fortuna, negli anni, ha scoperto che non è così, non sempre, non necessariamente. L’altro giorno mio figlio maggiore, con la perfida gratuita e implacabile degli adolescenti, è stato orrendo con i fratelli che gli avevano appena mostrato affetto. Eravamo in mezzo alla strada e ho perso il controllo. Sproloquiando di legami e di rispetto, gli ho urlato di consegnarmi il cellulare. Improvvisamente, con il suo telefonino in mano, mi sono ricordata del lancio di una sedia, e solo un rigurgito di autocontrollo mi ha impedito fargli fare la stessa ingloriosa fine. C’è un piacere catartico in un’esplosione di rabbia. C’è un’impudica e inaccettabile violenza nella liberazione dei propri istinti oscuro. Quando la mia rabbia si è placata, quando il suo cellulare requisito è stato messo in salvo nella mia borsa, quando il silenzio è calato tra di noi e le mani hanno smesso di tremarmi, i miei figli mi hanno guardato atterriti.  “È stato come quella volta che ci hai distrutto il Power Ranger verde e io avevo quattro anni”, ha mormorato incredulo il figlio di mezzo, ora dodicenne. Non era la prima volta. Perché anche la furia femminile può spiegare la sua potenza di fuoco. Eppure, anche oggi che la conosco e talvolta la pratico, la rabbia continua a farmi paura. Le cose, mi dicono, sono cambiate in quell’ambiente, ora che la finanza e i suoi virili guru hanno smesso di dominare il mondo. L’esplosione di rabbia non è più contemplata nei codici di condotta mentre una lacrimosa débacle non si nega   a nessuno. Forse trovarsi a metà strada ci renderebbe tutti migliori.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 23 giugno 2018 -

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