Il Treno Ad Alta
Velocità Av 9734 che
mi trasporta da Venezia Mestre approda alla stazione di Torino Porta Nuova alle
16,55. Viaggia con 40 anni di ritardo. Mi rendo conto che sono trascorsi
appunto 40 anni dall’ultima volta in cui avevo raggiunto in treno Torino, la
città dove lavoravo per la Stampa, e insieme tutto e niente è cambiato. I treni
sono gli Etr capaci d 300 all’ora, i tabelloni sono elettronici, lo shopping e
l frettoloso consumismo alimentare aspettano i viaggiatori, tra i quali, fra i
soliti volti un po' stanchi di donne che trascinano bambini e uomini che
spingono valigioni su rotelle, appaiono i nostri nuovi compagni di viaggio,
visi di africani e di slavi he 40 anni or sono non c’erano. Ma se i connotati
materiali di quella stazione sono cambiati, dai neon ai negozi di intimo, tri
treni rossi ai volti neri, non è quello il brivido del tempo che mi scuote
avviandomi verso la fila dei taxi. E’ l’aria che mi accolse nel mio ultimo
arrivo a Porta Nuova quella mattina di novembre del 1977 e l’aria che mi
accoglie adesso, primavera del 2018.Carlo Casalegno, mitissimo e inoffensivo
vice direttore della Stampa, giaceva in ospedale, attendendo di morire per le
ferite ricevute dai terroristi rossi. Il direttore, Arrigo Levi, viveva sotto
assedio nel suo appartamento, barricato con la moglie. L’atmosfera odorava di
piombo, di cordite e di paura, tra pattuglie di carabinieri e agenti di
pubblica sicurezza armati di Mab, il corto mitragliatore Beretta d’ordinanza.
Nei gabbioni costruiti dalla Stato, terroristi aspettavano processi fiume,
circondati da cordoni militari. Uscire dalla stazione significava entrare in un
mondo dove dirigenti, politici, avvocati, giornalisti, sindacalisti,
magistrati, agenti, tutti potevamo, ogni mattina, incontrare la pallottola di
una pistola Nagant, quella che aveva colpito Casalegno. La stazione centrale di
Torino, come la sorella a Milano, come quella di Bologna, come ogni altra in
Italia, trasudava paura. Respirava fuliggine di angoscia, limatura di terrore.
Oggi quella stazione non esiste più Altre paue hanno preso il posto di quelle,
perché ogni tempo conosce le proprie paure, ma la Torino plumbea, la Milano
cattiva, la Trieste smarrita e sospesa nel limbo della propria storia, la
Bologna straziata, le città e quelle stazioni ferroviarie che fin da bambino
adoro (mio nonno era ferroviere) e che percorro viaggiando per l’Italia ad
accompagnare il mio bambino di carta, il mio ultimo libro Il lato fresco del cuscino, non ci sono più. Hanno preso colore,
come un malato convalescente, a volte anche troppo, rischiando l’apoplessia da
neon, led, grassi fritti e insegne. Sono divenute centri commerciali, come gli
aeroporti, nei quali occasionalmente arriva e parte un treno o un aereo. L’aria
sa di fritto e di Kebab, di asfissianti essenze sprigionate dalle profumerie,
risuona di grida che intrecciano all’inglese l’arabo, il rumeno, lo spagnolo,
il mandarino, il francese e corrono i ragazzi in partenza per qualsiasi città
anche europea dove i loro zainetti e pochi euro li possano portare, per vacanza
o lavoro, senza preoccuparsi di passaporti o di cambio valuta. A Milano divido
l’albergo con plotoni di cinesi, che tornano da spedizioni nei negozi
dell’Inter, che è sempre più il loro club calcistico. Nel crogiolo di rabbia e
di rancori, di pessimismo e di ansia che stanno sciogliendo la nostra Italia,
le stazioni ferroviarie sono isole illuminate che rivelano e nascondono, che
ostentano prosperità e occultano povertà, fianco a fianco, come gli Etr rossi e
gli scalcagnati treni locali graffittati. Ma nella Porta Nuova di Torino, dove
40anni or sono sbarcai seguendo i sentieri della morte, oggi c’è la vita. Con
tutti i suoi meravigliosi problemi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16
giugno 2018 -
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