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sabato 23 giugno 2018

Lo Sapevate Che: Inermi davanti a un uomo in divisa...


Quando Nacque Il mio primo figlio ero impreparata all’immane compito che la mia dissennata seppur libera scelta di maternità mi poneva. Le prime furono settimane difficilissime di solitudine, interrogativi e ansia. Un giorno, nel mio peregrinare senza meta insieme a lui, per far passare le nostre ore eterne, capitai in un luogo che fu la mia salvezza: il consultorio pediatrico di zona. Era aperto a tutti e gratuito, abitato da ostetriche, puericultrici, medici che quotidianamente accoglievano madri come me, disorientate e inette, donne bisognose di essere prese per mano per imparare a fare un mestiere che si crede innato. Mi sono imbattuta spesso in eccellenze pubbliche come quella: isole a cui si approda naufraghi e da cui si riparte integri e consapevoli. Ho frequentato negli ultimi anni grazie ai miei figli, spazi generosi in cui il cittadino – paziente, utente, alunno – viene messo al centro e trattato con rispetto. Ogni volta, dopo l’iniziale sorpresa, penso che questa dovrebbe essere la regola. Mesi fa mi accorsi che il passaporto di mio figlio minore sarebbe scaduto quest’estate e che, per andare negli Stati Uniti a luglio. Avremmo dovuto ritrovarlo. Così, due mesi prima della scadenza e della partenza, mi sono presentata alla questura di zona. Entrando in quel posto tetro e affollato mi ha percorso un brivido. Perché mi sento sempre in colpa al cospetto delle forze dell’ordine come se dovessi vergognarmi o nascondermi? “La prima data disponibile per prendere un appuntamento è tra due mesi e mezzo. Venga con due foto del minore, dopo avere effettuato i pagamenti indicati su questo foglio”, mi comunica perentorio un poliziotto allo sportello. Gli spiego che saremmo partiti prima di quella data. “Lei è in ritardo e io non so che fare”. “Mancano ancora due mesi! Non c’è scritto da nessuna parte che occorre presentarsi tanto in anticipo”. Lui fa spallucce e si allontana. Al suo posto si materializza un collega che mi spiega con fare didattico-accusatorio che nella vita bisogna essere previdenti. “In Itala ci sono città in cui l’appuntamento si ottiene in quattro giorni, altre come Milano, in tre mesi. Non c’è una regola. Per questo non c’è scritto sul sito”. Chiaro. Sono solo nella città sbagliata. “D’accordo”. Imploro accondiscendente, “ma ora cosa faccio? Mio marito passerà l’estate oltreoceano e noi – i nostri figli ed io, - andremmo con lui. Non posso lasciare figli il piccolo qui”. “Signora, doveva pensarci prima”. Lui abbassa lo sguardo sulla scrivania. Temo mi stia congedando. Ha archiviato la pratica signora sciatta ed è pronto a passare ad altro. Io vorrei prendere a pugni il vetro che mi separa da lui. Vorrei dirgli che sono una cittadina e ho dei diritti e che lui, in quanto pubblico ufficiale, ha dei doveri nei miei confronti. Vorrei sproloquiare urlando. Ma sono in una questura e davanti a me ho un uomo in divisa che ha il superpotere di intimidirmi e di farmi sentire colpevole. Non è la fine del mondo. I problemi veri sono altri. Eppure l’arroganza di quest’uomo mi scuote le viscere. Perché se tratta con questo saccente disprezzo me, che parlo la sua lingua, ho strumenti per difendermi e conosco i miei diritti, come potrà essere rispettoso con chi è più fragile e smarrito e quindi più bisognoso? Mi torna in mente Marta, l’ostetrica del consultorio pediatrico (chiuso, nel frattempo) che, sorridendo, mi ha insegnato a fare la mamma. Penso che ogni tanto dovrebbero scambiarsi, lei ai passaporti, lui ai neonati. Farebbe bene a tutti. “Venerdì prossimo”, fa l’agente scrivendo su un’agenda il nome di mio figlio. Non capisco. “Vede che alla fine una soluzione si trova?”. Prima mi sgrida, ora mi premia. Evidentemente funziona così. Dico grazie e, a disagio, me ne vado.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9 giugno 2018 -

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