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oggi
non parlerò di un nipote, ma di un figlio. Un figlio particolare, fatto di
carta e di parole, ma caro al cuore del genitore quasi quanto un figlio umano,
con il vantaggio che non richiede vaccinazioni né pannolini. È un libro,
l’ultimo dei tanti che ho scritto, forse troppi, che da qualche giorno è uscito
di casa per muoversi da solo nel mondo sempre più spopolato delle librerie. Non
so dire se sia bello o brutto e se valga gli euro necessari per comprarlo,
perché no genitori siamo sempre i giudici peggiori dei nostri figli. Ma so che
questo libro che ho intitolato Il lato fresco del cuscino, nasce da una
necessità che in questi anni ho sentito crescere in proporzione inversa alla
confusione che ci assale e ci insedia da ogni lato della nostra vita. Il bisogno
di ricordare cose e oggetti che hanno reso più sopportabile l’afa
dell’esistenza, com’era appunto il lato fresco del cuscino nell’età senza
condizionatori. Diceva un editore che si dovrebbero scrivere soltanto i libri
che si sente il bisogno di scrivere, non per soldi (se ne fanno pochi, se non
azzecchi il numero alla lotteria), per vanità per passatempo. E quando un libro
è un figlio vero, la trepidazione con la quale lo guardi uscire di casa non è
molto diversa da quell’ansia che ti assale quando la tua bambina
improvvisamente prende le chiavi della macchina o sale sul motorino scomparendo
in fondo alla strada, casco tra i tanti caschi. Hai impiegato mesi per
partorirlo, notti insonni fra conati per quello che stavi gestendo e paralisi
di terrore al pensiero di perderlo, perché è parte di te, con tutti gli
strafalcioni genetici del tuo Dna e tutti i sogni che lo accompagnano. Un libro
è qualcosa che esisterà per sempre. Ricordo bene l’emozione incredula di mio
padre quando venne a trovarmi a Washington e lo portai alla biblioteca del
Congresso americano dove, dopo una semplice ricerca su un terminale, la
stampante sputò l’elenco dei suoi libri pubblicati in Italia. Non gli dissi che
la Library of Congress catalogava tutte le pubblicazioni ovunque uscissero nel
mondo, e che raccoglieva anche i manuali per riparare una Volkswagen Maggiolino
o una Fiat 600. Chi riesce a pubblicare un libro – e se ne stampano troppi in
Italia, credo 180 al giorno, inseguendo un numero sempre più ridotto di lettori
– conosce lo stesso smisurato orgoglio del genitore che vede il proprio figlio
primeggiare in una competizione, o l’abisso di sconforto che ti afferra quando
arranca. Ma sono quelli che fanno meno bene nella vita i più amati. Ho venduto
alcuni benissimo e altri malissimo, e sono i respinti, i reietti, i bruttini, i
somarelli coloro ai quali sono più affezionato, perché mi sembra che la vita
sia stata ingiusta con loro e che li debba proteggere dai nemici. Quest’ultimo
è nato da una notte di depressione di novembre, quando mia moglie e io vedemmo
l’America, la nazione dove avevamo voluto radicare la nostra famiglia,
scegliere come proprio simbolo e presidente un inverosimile fumetto con una
specie di fienile in testa da clown. Ebbi paura di avere sbagliato tutto e feci
quello che tutti noi animali facciamo nei momenti di crisi, reagendo
istintivamente. I cavalli spaventati corrono. I cani inquieti abbaiano. Le orse
assaltano per proteggere i loro cuccioli. E gli scrittori scrivono. Mi misi a
scrivere furiosamente, non di politica della quale avevo la nausea, ma di cose
vere e serene, spesso per ore di fila, sobbalzando quando mia moglie mi posava
una mano sulla spalla scuotendomi dalla trance per invitarmi ad andare a
dormire. Ora quel libro l’ho guardato uscire, augurandogli di trovare sempre un
lato fresco del cuscino. Comunque un posto in casa, accanto ai suoi fratelli e
sorelle, lo avrà sempre, se vorrà tornarvi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La
Repubblica – 26 maggio 2018 -
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