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domenica 3 giugno 2018

Lo Sapevate che: Scrivere un libro è come fare un figlio. Quasi...


….(..) oggi non parlerò di un nipote, ma di un figlio. Un figlio particolare, fatto di carta e di parole, ma caro al cuore del genitore quasi quanto un figlio umano, con il vantaggio che non richiede vaccinazioni né pannolini. È un libro, l’ultimo dei tanti che ho scritto, forse troppi, che da qualche giorno è uscito di casa per muoversi da solo nel mondo sempre più spopolato delle librerie. Non so dire se sia bello o brutto e se valga gli euro necessari per comprarlo, perché no genitori siamo sempre i giudici peggiori dei nostri figli. Ma so che questo libro che ho intitolato Il lato fresco del cuscino, nasce da una necessità che in questi anni ho sentito crescere in proporzione inversa alla confusione che ci assale e ci insedia da ogni lato della nostra vita. Il bisogno di ricordare cose e oggetti che hanno reso più sopportabile l’afa dell’esistenza, com’era appunto il lato fresco del cuscino nell’età senza condizionatori. Diceva un editore che si dovrebbero scrivere soltanto i libri che si sente il bisogno di scrivere, non per soldi (se ne fanno pochi, se non azzecchi il numero alla lotteria), per vanità per passatempo. E quando un libro è un figlio vero, la trepidazione con la quale lo guardi uscire di casa non è molto diversa da quell’ansia che ti assale quando la tua bambina improvvisamente prende le chiavi della macchina o sale sul motorino scomparendo in fondo alla strada, casco tra i tanti caschi. Hai impiegato mesi per partorirlo, notti insonni fra conati per quello che stavi gestendo e paralisi di terrore al pensiero di perderlo, perché è parte di te, con tutti gli strafalcioni genetici del tuo Dna e tutti i sogni che lo accompagnano. Un libro è qualcosa che esisterà per sempre. Ricordo bene l’emozione incredula di mio padre quando venne a trovarmi a Washington e lo portai alla biblioteca del Congresso americano dove, dopo una semplice ricerca su un terminale, la stampante sputò l’elenco dei suoi libri pubblicati in Italia. Non gli dissi che la Library of Congress catalogava tutte le pubblicazioni ovunque uscissero nel mondo, e che raccoglieva anche i manuali per riparare una Volkswagen Maggiolino o una Fiat 600. Chi riesce a pubblicare un libro – e se ne stampano troppi in Italia, credo 180 al giorno, inseguendo un numero sempre più ridotto di lettori – conosce lo stesso smisurato orgoglio del genitore che vede il proprio figlio primeggiare in una competizione, o l’abisso di sconforto che ti afferra quando arranca. Ma sono quelli che fanno meno bene nella vita i più amati. Ho venduto alcuni benissimo e altri malissimo, e sono i respinti, i reietti, i bruttini, i somarelli coloro ai quali sono più affezionato, perché mi sembra che la vita sia stata ingiusta con loro e che li debba proteggere dai nemici. Quest’ultimo è nato da una notte di depressione di novembre, quando mia moglie e io vedemmo l’America, la nazione dove avevamo voluto radicare la nostra famiglia, scegliere come proprio simbolo e presidente un inverosimile fumetto con una specie di fienile in testa da clown. Ebbi paura di avere sbagliato tutto e feci quello che tutti noi animali facciamo nei momenti di crisi, reagendo istintivamente. I cavalli spaventati corrono. I cani inquieti abbaiano. Le orse assaltano per proteggere i loro cuccioli. E gli scrittori scrivono. Mi misi a scrivere furiosamente, non di politica della quale avevo la nausea, ma di cose vere e serene, spesso per ore di fila, sobbalzando quando mia moglie mi posava una mano sulla spalla scuotendomi dalla trance per invitarmi ad andare a dormire. Ora quel libro l’ho guardato uscire, augurandogli di trovare sempre un lato fresco del cuscino. Comunque un posto in casa, accanto ai suoi fratelli e sorelle, lo avrà sempre, se vorrà tornarvi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 26 maggio 2018 -

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