mario deaglio
La decisione del Congresso degli Stati Uniti di aumentare l’imposizione fiscale sui redditi elevati è molto più di una semplice, anche se importante, manovra di finanza pubblica dettata dalla necessità di scongiurare un collasso assurdo e perfettamente evitabile dell’economia americana. Al di là della sua portata pratica, rappresenta un momento di svolta, la fine di uno dei principi-guida del capitalismo moderno.
Un principio-guida che ha permeato la politica economica americana dai tempi della presidenza Reagan, ossia negli ultimi trent’anni: la convinzione che sia sufficiente ridurre le imposte sui cittadini dai redditi elevati per ottenere un aumento della crescita e un aumento generalizzato della produzione, del reddito e del benessere.
I risultati iniziali non furono sfavorevoli (la rivoluzione di Internet può essere considerata figlia non solo delle liberalizzazioni ma anche della tendenza a tassare benevolmente i redditi alti) ma, dopo una prima fase, sono emersi pesanti effetti collaterali negativi, appesantiti dalla crisi economica: solo una piccola parte degli americani ha tratto grandi benefici dalla crescita trainata da questo tipo di detassazione, spesso i lavoratori «normali» hanno dovuto aumentare le ore di lavoro per mantenere inalterato il proprio livello di consumi, la diseguaglianza dei redditi è cresciuta e il disagio sociale si è fatto più acuto. Tutto ciò si è verificato, e continua a verificarsi, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa e l’Italia non è certo un’eccezione: la detassazione dei redditi alti, realizzata dai governi precedenti nell’arco di una quindicina d’anni - in buona parte mediante il condono edilizio e fiscale del 2003 - non sembra aver avuto effetti positivi sull’irrisorio tasso di crescita dell’economia italiana.
A causa di questi elementi negativi, che si sono sommati alla crisi economica, il vento è radicalmente cambiato. Quasi due anni fa, Warren Buffet, il finanziere miliardario che è una delle figure più tipiche della scena economica americana, fece sensazione quando denunciò come aberrante il sistema fiscale del suo Paese perché tassava troppo poco la gente come lui: i suoi proventi di Borsa venivano colpiti dal fisco meno duramente dei guadagni della sua segretaria. Due giorni fa in occasione della giornata mondiale della pace, Benedetto XVI, ha attaccato duramente il «capitalismo finanziario sregolato» (e anche assai poco tassato, si potrebbe aggiungere).
In questo intervallo di tempo, l’Unione Europea ha dato il via libera alla cosidetta «Tobin tax» che colpisce le transazioni finanziarie e undici Paesi, tra i quali l’Italia, l’hanno adottata o la stanno per adottare. In Francia, dopo che la Corte costituzionale ha bocciato la «tassa sui ricchi», il governo ha riaffermato la volontà di procedere in quella direzione e nel suo grigio e frettoloso discorso di fine anno, il presidente Hollande, ha ribadito la necessità di un maggior contributo dei ricchi al risanamento delle finanze pubbliche. In Italia, l’Agenda Monti punta a una riduzione del prelievo fiscale complessivo dando la precedenza ai redditi più bassi.
Tutto questo individua un ritorno alla socialdemocrazia degli Anni Sessanta e Settanta? Non esattamente. Le riduzioni del carico fiscale a partire dai redditi più bassi e lo spostamento del carico stesso dai redditi più bassi a quelli più alti sembrano semplicemente rappresentare un tentativo globale per uscire dalla crisi, un obiettivo che non è stato raggiunto con la stampa di nuova moneta. Un alleggerimento fiscale di mille euro ai cittadini dai redditi bassi produce un aumento più elevato di domanda rispetto a mille euro di alleggerimento fiscale a cittadini dai redditi elevati. I primi, infatti, spenderanno tutto o quasi tutto per recuperare un livello di consumi perduto o per effettuare consumi forzosamente rinviati, mentre lo stile di vita e il livello dei consumi dei secondi potrebbe non esserne quasi influenzato. Una diversa distribuzione del carico fiscale può quindi essere uno strumento adatto a far ripartire i meccanismi inceppati dell’economia globale. Nel medio e lungo periodo, invece, i livelli di tassazione dei vari scaglioni di reddito paiono invece tutti da discutere.
In realtà, per rilanciare l’economia, a chi ha redditi (e capitali) elevati si deve chiedere non tanto di consumare di più quanto di investire di più, di rischiare di più. Purtroppo, negli ultimi vent’anni non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, i maggiori redditi dei contribuenti di fascia alta non sono andati in questa direzione ma si sono tradotti soprattutto in impieghi finanziari scarsamente collegati con l’economia reale. Se questo comportamento non cambia, una delle condizioni di base in un sistema nel quale possano coesistere Stato e mercato, verrà a mancare: avremmo un’economia con scarsa crescita tendenziale e una società sempre più diseguale.
In questa situazione, le istanze - portate avanti da alcune forze politiche italiane - di pura e semplice eliminazione di imposte impopolari come l’Imu, che, colpendo il patrimonio immobiliare, gravano maggiormente sui più ricchi, appaiono dissonanti con quelle degli altri Paesi avanzati e prive di veri effetti sulla crescita.
La Stampa – Editoriale – 3-1-13
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