La mafia e lo Stato,
Un Gioco Degli Specchi
Nell’Aula Bunker
Palermo. Mai nella storia italiana, sentenza ha avuto tante conseguenze. Il prossimo 16 dicembre lo storico verdetto del maxiprocesso a Cosa Nostra, celebrato nell’Aula Bunker di Palermo, segnerà la tacca del suo venticinquesimo compleanno: 2665 anni di condanne, più 19 ergastoli, inflitti quel giorno a 475 imputati. Grazie alle rivelazioni del primo boss pentito Tommaso Buscetta, la mafia rischiò addirittura l’estinzione. E invece poi risorse, come l’Araba Fenice. L’attentato al treno Italicus (1984), l’uccisione dei dirigenti della squadra Mobile di Palermo (estate 1985), l’ordigno dell’Addaura contro Falcone (1989), l’esecuzione del giudice Scopelliti (1991, doveva rappresentare l’accusa in Cassazione per il maxiprocesso), la conferma del verdetto del processone in terzo grado (30 gennaio 1992), le esecuzioni degli antichi protettori (a cominciare dal “cataclismatico” omicidio di Stato Lima, ’92), le stragi di Falcone e Borsellino (1992), l’arresto per mafia del numero tre del Sisde Contrada (1992), le bombe mafiose a Roma, Firenze, Milano (1993), la falsa inchiesta su Borsellino (sventata solo nel 2009), gli arresti enigmatici dei capimafia Michele Greco (1986), Totò Riina (1993), con annessa la non perquisizione del covo), dei fratelli Graviano (1994), dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico e la fine dello stragismo), di Bernardo Provenzano (2006), la trattativa Stato-Mafia (iniziata dopo le stragi), il conflitto di attribuzione tra Quirinale e Procura di Palermo (estate 2012), il processo che vede alla sbarra per la prima volta insieme boss e uomini delle istituzioni (autunno 2012): sono altrettante tracce di una bava che, an cora oggi, appesta la storia del Paese.
E’ deformata, ambigua, piena di buchi, la storia come crediamo di saperla. Il processo sulla trattativa Stato-mafia ha riportato indietro l’orologio. Facendo pesare, con le evidenti differenze tra oggi e ieri, anche inquietanti continuità. In occasione del processo sulla trattativa (lo Stato che accusa se stesso) è stata riaperta l’Aula Bunker. Ma nel 1986 i suoi cancelli vennero varcati da centinaia di cittadini, e le tribune poterono ospitare Leonardo Sciascia, che ascoltò dal vivo le confessioni di Buscetta. Nel 2012, invece, le porte sono sigillate. L’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, può sedere al riparo da fotografi e telecamere, insieme al senatore Marcello Dell’Utri, all’ex ministro Calogero Mannino, agli ufficiali, agli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, tutti accusati di violenza o minaccia al corpo politico dello Stato. Stanno fianco a fianco di boss del calibro di Riina, Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Busca, collegati in videoconferenza. Quel 16 dicembre di 25 anni fa il presidente del maxiprocesso, Alfonso Giordano, passo più di un’ora in piedi a leggere il verdetto, ritto al centro di una esedra di 1600 metri quadrati , che comprendeva un immenso pretorio per avvocati, parti civili e accusa, e un anello con le celle per i detenuti. Il Teatro dove si consumava il processone era custodito da muraglioni, filo spinato, porte blindate, telecamere, cecchini: un ottagono in cemento armato di 7500 metri quadri, progettato dall’architetto Francesco Martuscelli e collegato al carcere borbonico dell’Ucciardone. Otto presidenti di sezione, prima di Giordano, rifiutarono il presiedere il “processo dei cinquecento”. Giudice a latere fu Pietro Grasso, attuale procuratore antimafia. Giordano (56 anni allora), un fisico di ferro allenato da corse e yoga, oggi ricorda così il contesto: “Cambiai la mia vecchia Beretta 7,65 con una Walther PP-Super calibro 9x18, la stessa resa celebre da 007, e cominciai a esercitarmi al poligono di tiro, con buoni risultati, centrando bersagli anche da notevole distanza”. Oggi, invece, Massimo Ciancimino (figlio dell’ex sindaco
mafioso don Vito, testimone della trattativa, che nel processo deve anche rispondere di calunnia nei confronti del sottosegretario ai servizi segreti Gianni De Gennaro) raggiunge serenamente a piedi l’Aula Bunker. Nell’aprile scorso aveva seppellito nel giardino di casa decine di candelotti di tritolo. Un tipo tranquillo . A chi gli chiede come mai una perizia ha scoperto che nel famoso papello (le richieste di Riina allo Stato)fosse stata”copiata e incollata” la firma di De Gennaro, replica serafico: “Amici e familiari mi hanno consegnato tanti documenti di mio padre. Io, senza verificare, li ho girati ai giudici…”
Quante differenze. I giornalisti accreditati al maxi erano 1700. Oggi le principali reti Rai e Mediaset non seguono il processo sulla trattativa. Uniche eccezioni, brevi servizi su Tg2 e Sky. Il 10 febbraio del 1986, all’alba, il primo della fila dei 1700 cronisti accreditati era Giampaolo Pansa. Inviato di punta di Repubblica, fu lui a chiamare l’Aula Bunker “l’astronave”, Oggi Pansa scrive su Libero.
In quei giorni l’astronave sembrava decollare alla scoperta della verità. Adesso il pm di punta dell’inchiesta sulla trattativa, Antonio Ingroia, ha accettato un incarico dell’Onu in Guatemala. Ha consegnato le sue memorie ai giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco (Io so, Chiarelettere, pp.156, euro 12,90) su vent’anni di sistemi criminali in Italia. Alla fine l’allievo di Borsellino dice “ Lo Stato ha avuto una responsabilità nella morte di Paolo. E non mi riferisco solo a una responsabilità morale ed etica. Sono convinto che uomini dello Stato hanno avuto una responsabilità penale in quell’eccidio”. Ma, lascia sottinteso, non ho le prove. Come Paolini.
Quanta amarezza. Ieri un ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, volle fermamente la celebrazione del maxi. Oggi, da presidente della Repubblica, viene additato come colui che, insieme al capo della polizia Parisi, avrebbe pressato per alleggerire il carcere duro ai boss. Lo scopo? Fermare le stragi. E sempre oggi un gruppo di “eroici poliziotti” (quelli che convinsero Buscetta a cantare, che cercarono i riscontri ai pentiti, che sempre Scalfaro chiamò perché affiancassero il pool di Falcone con un analogo pool di investigatori, sull’esempio della task force anti-Br di Dalla Chiesa) sono sporcati dai depistaggi su Borsellino e condannati in tribunale per il G8 di Genova.
C’è di peggio. I giornalisti Maurizio Torrealta e Giorgio Mottola (Processo allo Stato, Rizzoli, pp.352. euro12) sostengono che nei giorni della trattativa, nel buio delle carceri speciali, dove vennero trascinati i boss dopo le stragi, incubò il Protocollo Farfalla, una procedura affinata da Sisde e Dipartimento di amministrazione penitenziaria, per la gestione dei pentiti al di fuori del controllo dell’autorità giudiziaria. Un protocollo illegale, ma poi codificato negli anni a venire, al punto che oggi viene invocato a sua copertura il segreto di Stato.
E i magistrati? Prendete i due pm del maxi che chiesero le condanne: uno, Domenico Signorino, si è suicidato dopo accuse di collusione con la mafia.
Tommaso Buscetta nel ’92 dichiarò a Eugenio Scalfari e Giuseppe D’Avanzo che le parole del pentito Gaspare Mutolo vennero fatte circolare a bella posta, per bruciare un’indagine più ampia, sacrificando Signorino. L’altro pm, Giuseppe Ayala, ha querelato il fratello di Borsellino, che lo accusa di “reticenza”, a proposito della sparizione dell’agenda rossa del magistrato. Per caso esiste uno “Stato parallelo”, annidato nel cuore delle istituzioni?” Parallelo a che?” risponde Ingroia a Rizza e Lo Bianco. “ A lungo lo Stato ha avuto il volto di Contrada”. L’anomalia, semmai, era Falcone.
Piero Melati – Venerdì di Repubblica 30-11-12
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