Studenti Somari e Prof stanchi?
La Realtà è Questa, M Non Solo
Solitamente raccontare la scuola significa mettere in fila una serie di catastrofi, a volte in modo allarmato, a volte cercando di fare un po’ ridere: così scorrono sulle pagine o nelle pellicole studenti somarissimi, insegnanti sconfortati, presidi inetti, strutture fatiscenti, e tante incomprensioni tra adulti e ragazzi. Anche io ho raccontato spesso il collasso del nostro sistema educativo, travolto dalla sottocultura dominante: allieve che nei cambi d’ora si fanno la piastra in classe per avere i capelli lisci come le bellone dello spettacolo, che sdraiano tre telefonini sul banco, che sognano Beckam e Manuel Gargo; studenti che faticano a comporre un pensiero, a concatenare due mezze idee, che sembrano aver perduto ogni capacità logica ed espressiva. E insegnanti depressi, avvilitissimi, spaventati di fronte all’obbligo di dover entrare in classe a fare lezione in mezzo al disinteresse generale, irrisi dai loro studenti, privi di un ruolo sociale e culturale, impoveriti e tremanti. Insegnanti che non sanno più cosa insegnare e a chi, precari che si svegliano alle quattro di mattina per prendere il treno che da Napoli li porta a Roma, al lavoro, che ogni anno, se gli va bene, devono ricominciare da zero in un’altra scuola. E presidi, o dirigenti scolastici come si dice oggi, terrorizzati dai loro nuovi compiti da manager, sgomenti davanti ai conti che non tornano, ai soldi che non arrivano, alla mancanza di carta igienica e di carta per le fotocopie. Sono stati anni miserevoli, ogni anno un passo indietro e in basso, ho visto aumentare solo l’analfabetismo, l’inconsapevolezza, l’adorazione delle merci, un’allegria beota e uno smarrimento collettivo.
Sono stati anni del declino spensierato, della rinuncia soddisfatta a ogni minima tensione ideale.
Si gridava al lupo al lupo!
E poi si faceva amicizia con chi veniva a sbranare ogni speranza.
Ma per fortuna ora qualcosa è cambiato: il principio di realtà ha ripreso il suo posto, è una realtà cruda, sgradevole, spigolosa, ma per lo meno questa secchiata d’acqua gelida ci ha svegliato da un sogno assurdo, senza capo né coda. Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni non nasconde nulla delle difficoltà della scuola, non butta sotto il tappeto la sporcizia dell’ignoranza dilagante e della demotivazione che rende tutti più cinici, non disegna rose e fiori sui muri scrostati delle nostre scuole, però ha il coraggio di rimettere al centro dell’attenzione generale la potenza formativa della cultura.
Ci mostra un preside e due professori, uno giovane e uno più anziano, che per la prima volta, o per l’ultima, scoprono di contare molto nella vita dei loro studenti: e scoprono anche che quei ragazzi apparentemente anonimi e indifferenti possono modificare la loro esistenza.
Piccioni ci ricorda che la scuola è un luogo di relazioni profonde, di scambi intensi, di verità improvvise che spaccano la crosta dell’abitudine. Basta mantenere viva l’attenzione reciproca, ridarsi fiducia, non abbassare gli occhi e il pensiero. Perché i ragazzi hanno bisogno degli adulti e gli adulti dei ragazzi, e la scuola è il luogo migliore per crescere insieme, magari discutendo del romanticismo e del classicismo o leggendo Leopardi.
Marco Lodoli – Venerdì di Repubblica – 14-9-12
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