IL PROCESSO DI GALILEO
La rivendicazione
dell’autonomia della ricerca da ogni tipo di condizionamento, teologico e
religioso, rappresentò il primo punto di scontro tra Galileo e la Chiesa, ma il
vivo del contrasto si ebbe quando, nel 1632, venne pubblicato "Il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", un' opera che aveva
progettato fin dal 1609 e che l’editto del 1616 aveva bloccato. Il Dialogo
consisteva in una discussione, divisa in quattro giornate, tra tre
interlocutori: il fiorentino Salviati, il patrizio veneziano Sagredo e
l’aristotelico Simplicio (un personaggio immaginario che echeggiava il nome di
un grande commentatore greco di Aristotele ma evocava anche l’idea del
sempliciotto, di colui che non è dotato dell’intelligenza necessaria per
seguire i ragionamenti della nuova scienza).
Nel proemio
dell'opera Galileo scrive di considerare la teoria di Copernico come "pura
ipotesi matematica" e di voler dimostrare che la condanna del
copernicanesimo stabilita dalla Chiesa era fondata su basi serie e motivi
validi: ovviamente il trucco era facilmente smascherabile e il lettore non poté
non percepire che l’intenzione dell’autore era quella di far percepire
attraverso il dialogo, la forza delle argomentazioni copernicane e la debolezza
e la fragilità delle obiezioni dei seguaci di Tolomeo e di Aristotele.
Già nell’estate del
1632, Urbano VIII, lo stesso personaggio nel quale Galileo aveva riposto tante
speranze, avviò un indagine sulla legittimità dell’autorizzazione del quale
l’opera si fregiava;egli temeva fosse stata estorta o, ancora di più, che
fosse esibita senza che alcuno l’avesse formalmente concessa. Convinto
dagli avversari di Galileo che il Dialogo costituiva uno screditamento
dell'autorità del papa, ridicolizzato nella figura di Simplicio, avviò
formalmente il procedimento inquisitorio e Galileo fu convocato a
Roma.
Passarono dei mesi
prima che Galileo si decidesse a compiere questo viaggio. Timoroso degli
esiti di un processo di eresia, scongiurava i suoi protettori a risparmiargli
questa gravoso compito. Nonostante le sue richieste di aiuto e nonostante le
pressioni sul pontefice stesso da parte del Granduca di Toscana, niente fu
possibile. Nel febbraio del 1633 Galileo si trasferì a Roma e gli furono
concessi dei privilegi rispetto a coloro che erano inquisiti dal Santo Uffizio.
Gli fu per esempio concesso di risiedere presso l’ambasciatore toscano a Roma
nell’attuale Villa Medici. Durante l’interrogatorio, lento, aggirante, fondato
su procedure raffinate e giuridicamente molto solide, Galileo cercò di smentire
le accuse ,ricordando che il fine della sua opera era stato quello di
dimostrare l'invalidità del Copernicanesimo, ma i giudici, persuasi di
essere ingannati, non credettero alle giustificazioni. Alla fine Galileo,
probabilmente per il timore che venisse avanzato un capo di accusa più
grave che avrebbe comportato il carcere a vita o addirittura il rogo
(così come era capitato a Giordano Bruno), smise di insistere nel dichiararsi
innocente, chinò il capo e ascoltò la sentenza della sua condanna.
...Diciamo, pronuntiamo, sententiamo
e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e
da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Off.o vehementemente
sospetto d'heresia, cioè d'haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria
alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e che non si
muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del
mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un'opinione dopo esser
stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e
conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni et
altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e
promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero
e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori
et heresie et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica ed
Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data. Et acciocché
questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto
impunito, et sii più cauto nell'avvenire et essempio all'altri che si
astenghino da simili delitti, ordiniamo che per pubblico editto sia prohibito
il libro de' Dialoghi di Galileo Galilei. Ti condaniamo al carcere formale in
questo S.° Off.° ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t'imponiamo che
per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitentiali:
riservando a noi facoltà di moderare, mutare, o levar in tutto o parte le sodette
pene e penitenze. Et così diciamo, pronuntiamo, sententiamo, dichiariamo,
ordiniamo e reservamo in questo et in ogni altro meglior modo e forma che di
ragione potevo e dovemo. Ita pronun.mus nos Cardinales infrascripti:
F. Cardinalis
de Asculo
B. Cardinalis Gipsius
G. Cardinalis Bentivolus
F. Cardinalis Verospius
Fr. D. Cardinalis de Cremona
F. M. Cardinalis Ginettus
Fr. Ant.s Cardinalis S.
Honuphrii.
ed ecco l'abiura
che pronunciò Galileo.....
" .... Io
Galileo, figliuolo del quondam Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia
d’anni 70, costituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi
Eminentissimi e Reverentissimi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana
contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li
sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho
creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto
quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma
perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto
dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa
opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non
sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né
insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa
dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra
Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa
dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa,
senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto
d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e
imobile e che la terra non sia centro e che si muova. Pertanto volendo io levar
dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente
sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta
abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e
qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che
per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali
per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun
eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero
all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto
d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi
saranno da questo S. Offizio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie
promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e
castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari
contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi
santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo sodetto ho abiurato,
giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia
propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala
di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno
1633.
Io, Galileo Galilei, ho
abiurato come di sopra, mano propria".
Egli fu
condannato al carcere ed un trattamento di favore fu conseguenza del fatto che
egli accettò di abiurare le sue tesi. Il tribunale gli risparmiò il carcere
decretando gli arresti domiciliari a Siena presso l’arcivescovo Piccolomini,
legato molto a Galileo da stima ed amicizia. Sei mesi più tardi gli fu permesso
di tornare nella propria casa di Arcetri, purché non incontrasse altro che i
familiari più stretti.
Il processo e la
condanna di Galileo costituirono una seria minaccia per il processo di ricerca
ma la sentenza non ottenne i risultati che si riprometteva; non fermò e non poteva
fermare il desiderio di conoscere che già allora, anche altri rappresentanti
del mondo ecclesiastico, consideravano la vera scintilla posta da Dio
nell’uomo.
REVISIONE DEL PROCESSO
Dal tempo del processo di Galileo il pensiero teologico e
l'epistomologia della scienza hanno subito una notevole evoluzione. La teologia
e la scienza del Seicento negavano che un "evento", cioè una
qualsiasi parte del reale, avesse un contenuto di verità non esauribile con un
solo punto di vista e con il corrispettivo linguaggio descrittivo e
interpretativo.
Oggi invece i più accettano l’idea che un evento sia suscettibile
di molteplici letture (scientifica, metafisica, sapienziale, …) che richiedono
più linguaggi, ciascuno dei quali con il proprio obiettivo specifico e limitato
cosi da non poter esaurire la complessità dell’evento stesso. Deriva da ciò una
maggior umiltà nella pretesa conoscitiva che riduce le contrapposizioni e
agevola il dialogo fra le varie letture. Di recente, la commissione insediata
dal papa Giovanni Paolo II col compito di pubblicare gli atti del processo e
chiudere ufficialmente il conflitto che si era istaurato tra Galilei e la
Chiesa, ha terminato i suoi lavori permettendo cosi al papa di esporre nel
discorso del 31 ottobre 1992 le conclusioni sul processo ai membri della
Pontificia Accademia delle Scienze. Con questo discorso si decise che nel XVII
secolo si scontrarono una fisica che aveva conseguito un adeguato statuto
epistemologico e una ermeneutica biblica del tutto inadeguata, e che questa situazione
ha permesso la tragica incomprensione del più grande scienziato cattolico del
XVII secolo. Il doloroso malinteso sulla presunta opposizione tra scienza e
fede appartiene ormai al passato. Ecco una parte del discorso tenuto da papa
Giovanni Paolo II il 31 ottobre 1992.
“Ero mosso da
simili preoccupazioni, il 10 novembre 1979 in occasione della celebrazione del
primo centenario della nascita di Albert Einstein, quando espressi davanti a
questa medesima Accademia l'auspicio che «dei teologi, degli scienziati e degli
storici, animati da spirito di sincera collaborazione, approfondissero l'esame
del caso Galileo e, in un riconoscimento leale dei torti da qualunque parte
essi venissero, facessero scomparire la sfiducia che questo caso ancora oppone,
in molti spiriti, ad una fruttuosa concordia tra scienza e fede» (AAS 71, 1979,
pp. 1464-1465). Una commissione di studio è stata costituita a tal fine il 3
luglio 1981. Ed ora, nell'anno stesso in cui si celebra il 350° anniversario
della morte di Galileo, la Commissione presenta, a conclusione dei suoi lavori,
un complesso di pubblicazioni che apprezzo vivamente. Desidero esprimere la mia
sincera riconoscenza al Cardinale Poupard incaricato di coordinare le ricerche
della Commissione nella fase conclusiva. A tutti gli esperti che hanno
partecipato in qualche modo ai lavori dei quattro gruppi da cui è stato
condotto questo studio pluridisciplinare, dico la mia profonda soddisfazione e
la mia viva gratitudine. Il lavoro svolto per oltre dieci anni risponde ad un
orientamento suggerito dal Concilio Vaticano II e permette di porre meglio in
luce vari punti importanti della questione. In avvenire, non si potrà non tener
conto delle conclusioni della commissione. Ci si meraviglierà forse che (...)
io ritorni sul caso Galileo. Non è questo caso archiviato da tempo e gli errori
commessi non sono stati riconosciuti? Certo, questo è vero. Tuttavia, i
problemi soggiacenti a quel caso toccano la natura della scienza come quella
del messaggio della fede. Non è dunque da escludere che ci si trovi un giorno
davanti ad una situazione analoga, che richiederà agli uni e agli altri una
coscienza consapevole del campo e dei limiti delle rispettive competenze. (...)
Una doppia questione sta al cuore del dibattito di cui Galileo fu al centro. La
prima è di ordine epistemologico e concerne l'ermeneutica biblica. A tal
proposito, sono da rilevare due punti. Anzitutto, come la maggior parte dei
suoi avversari Galileo non fa distinzione tra quello che è l'approccio
scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura di ordine
filosofico, che esso generalmente richiama. È per questo che egli rifiutò il
suggerimento che gli era stato dato di presentare come un'ipotesi il sistema di
Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili. Era
quella, peraltro, un'esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu il geniale
iniziatore. Inoltre, la rappresentazione geocentrica del mondo era comunemente
accettata nella cultura del tempo come pienamente concorde con l'insegnamento
della Bibbia, nella quale alcune espressioni, prese alla lettera, sembravano
costituire delle affermazioni di geocentrismo. Il problema che si posero dunque
i teologi dell'epoca era quello della compatibilità dell'eliocentrismo e della
Scrittura. Così la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che
essi suppongono, obbligava i teologi ad interrogarsi sul loro criterio di
interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo.
Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più
perspicace dei suoi avversari teologi. «Se bene la Scrittura non può errare,
scrive a Benedetto Castelli, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de suoi
interpreti ed espositori, in vari modi» (Lettera del 21 dicembre 1613, in
Edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei dir. A. FAVARO, riedizione
del 1968). Si conosce anche la sua lettera a Cristina di Lorena (1615) che è
come un piccolo trattato di ermeneutica biblica. Possiamo già qui formulare una
prima conclusione. L'irruzione di una nuova maniera di affrontare lo studio dei
fenomeni naturali impone una chiarificazione dell'insieme delle discipline del
sapere. Essa le obbliga a delimitare meglio il loro campo proprio, il loro
angolo di approccio, i loro metodi, così come l'esatta portata delle loro
conclusioni. In altri termini, questa novità obbliga ciascuna delle discipline
a prendere una coscienza più rigorosa della propria natura. Il capovolgimento
provocato dal sistema di Copernico ha così richiesto uno sforzo di riflessione
epistemologica sulle scienze bibliche, sforzo che doveva portare più tardi
frutti abbondanti nei lavori esegetici moderni e che ha trovato nella
Costituzione conciliare Dei Verbum una consacrazione ed un nuovo impulso. La
crisi che ho appena evocato non è il solo fattore ad aver avuto delle
ripercussioni sull'interpretazione della Bibbia. Noi tocchiamo qui il secondo
aspetto del problema, l'aspetto pastorale.
In virtù della missione che le
è propria la Chiesa ha il dovere di essere attenta alle incidenze pastorali
della sua parola. Sia chiaro anzitutto che questa parola deve corrispondere
alla verità. Ma si tratta di sapere come prendere in considerazione un dato
scientifico nuovo quando esso sembra contraddire delle verità di fede. Il giudizio
pastorale che richiedeva la teoria copernicana era difficile da esprimere nella
misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell'insegnamento stesso della
Scrittura. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle abitudini
di pensiero ed inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo di Dio.
Diciamo in maniera generale che il pastore deve mostrarsi pronto ad
un'autentica audacia evitando il duplice scoglio dell'atteggiamento incerto e
del giudizio affrettato potendo l'uno e l'altro fare molto male.
Può essere qui
evocata una crisi analoga a quella di cui parliamo. Nel secolo scorso ed
all'inizio del nostro, il progresso delle scienze storiche ha permesso di
acquisire nuove conoscenze sulla Bibbia e sull'ambiente biblico. Il contesto
razionalista nel quale, per lo più, le acquisizioni erano presentate, poté
farle apparire rovinose per la fede cristiana. Certuni, preoccupati di
difendere la fede, pensarono che si dovessero rigettare conclusioni storiche
seriamente fondate. Fu quella una decisione affrettata ed infelice. L'opera di
un pioniere come il Padre Lagrange ha saputo operare i necessari discernimenti
sulla base di criteri sicuri. Bisogna ripetere qui ciò che ho detto sopra. È un
dovere per i teologi tenersi regolarmente informati sulle acquisizioni
scientifiche per esaminare, all'occorrenza, se è il caso o meno di tenerne
conto nella loro riflessione o di operare delle revisioni nel loro
insegnamento.
Se la cultura
contemporanea è segnata da una tendenza allo scientismo, l'orizzonte culturale
dell'epoca di Galileo era unitario e recava l'impronta di una formazione
filosofica particolare. Questo carattere unitario della cultura, che è in sé
positivo ed auspicabile ancor oggi, fu una delle cause della condanna di
Galileo. La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la
Sacra Scrittura e la sua interpretazione, il che li condusse a trasporre
indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto
appartenente alla ricerca scientifica.
In realtà, come ha ricordato
il Cardinal Poupard, Roberto Bellarmino, che aveva percepito la vera posta in
gioco del dibattito, riteneva da parte sua che, davanti ad eventuali prove
scientifiche dell'orbita della terra intorno al sole si dovesse «andar con
molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie» alla
mobilità della terra e «più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia
falso quello che si dimostra» (Lettera al Padre A. Foscarini, 12 aprile
1615). Prima di lui, la stessa saggezza e lo stesso rispetto della Parola
divina avevano già guidato sant'Agostino a scrivere: «Se ad una ragione
evidentissima e sicura si cercasse di contrapporre l'autorità delle Sacre
Scritture, chi fa questo non comprende e oppone alla verità non il senso genuino
delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero, vale a
dire non ciò che ha trovato nelle Scritture, ma ciò che ha trovato in se
stesso, come se fosse in esse» (Epistula 143, n. 7; PL 33, col 588). Un secolo
fa, il Papa Leone XIII faceva eco a questo pensiero nella sua enciclica
Providentissimus Deus: «Poiché il vero non può in alcun modo contraddire il
vero, si può esser certi che un errore si è insinuato o nell'interpretazione
delle parole sacre o in un altro luogo della discussione» (Leonis XIII Pont.
Max. Acta, vol. XIII, 1894).
Il Cardinal Poupard ci ha
ugualmente ricordato come la sentenza del 1633 non fosse irreformabile e come
il dibattito, che non aveva cessato di evolvere, sia stato chiuso nel 1820 con
l'imprimatur concesso all'opera del canonico Settele (cf. Pontificia Academia
Scientiarum, Copernico, Galilei e la Chiesa. Fine della controversia (1820).
Gli atti del Sant'Ufficio, a cura di W. Brandmuller e E. J. Greipl, Firenze,
Olschki, 1992).
A partire dal
secolo dei Lumi fino ai nostri giorni, il caso Galileo ha costituito una sorta
di mito, nel quale l'immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era
abbastanza lontana dalla realtà. In tale prospettiva il caso Galileo era il
simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico,
oppure dell'oscurantismo «dogmatico» opposto alla libera ricerca della verità.
Questo mito ha giocato un ruolo culturale considerevole; esso ha contribuito ad
ancorare parecchi uomini di scienza in buona fede all'idea che ci fosse
incompatibilità tra lo spirito della scienza e la sua etica di ricerca, da un
lato, e la fede cristiana, dall'altro. Una tragica reciproca incomprensione è
stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza
e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di
affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato.
Dal caso
Galileo si può trarre un insegnamento che resta d'attualità in rapporto ad
analoghe situazioni che si presentano oggi e possono presentarsi in futuro. Al
tempo di Galileo, era inconcepibile rappresentarsi un mondo che fosse
sprovvisto di un punto di riferimento fisico assoluto. E siccome il cosmo
allora conosciuto era, per così dire, contenuto nel solo sistema solare non si
poteva situare questo punto di riferimento che sulla terra o sul sole. Oggi,
dopo Einstein e nella prospettiva della cosmologia contemporanea, nessuno di
questi due punti di riferimento riveste l'importanza che aveva allora. Questa
osservazione, è ovvio, non concerne la validità della posizione di Galileo nel
dibattito; intende piuttosto indicare che spesso, al di là di due visioni
parziali e contrastanti, esiste una visione più larga che entrambe le include e
le supera.
Un altro
insegnamento che si trae è il fatto che le diverse discipline del sapere
richiedono una diversità di metodi. Galileo, che ha praticamente inventato il
metodo sperimentale, aveva compreso, grazie alla sua intuizione di fisico
geniale e appoggiandosi a diversi argomenti, perché mai soltanto il sole
potesse avere funzione di centro del mondo, così come allora era conosciuto,
cioè come sistema planetario. L'errore dei teologi del tempo, nel sostenere la
centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della
struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso
letterale della S. Scrittura. Ma è doveroso ricordare la celebre sentenza
attribuita a Baronio: «Spiritui Sancto mentem fuisse nos docere quomodo ad
coelum eatur, non quomodo coelum gradiatur». In realtà, la Scrittura non si
occupa dei dettagli del mondo fisico, la cui conoscenza è affidata
all'esperienza e ai ragionamenti umani. Esistono due campi del sapere, quello
che ha la sua fonte nella Rivelazione e quello che la ragione può scoprire con
le sole sue forze. A quest'ultimo appartengono le scienze sperimentali e la
filosofia. La distinzione tra i due campi del sapere non deve essere intesa
come una opposizione. I due settori non sono del tutto estranei l'uno
all'altro, ma hanno punti di incontro. Le metodologie proprie di ciascuno
permettono di mettere in evidenza aspetti diversi della realtà.”
http://www.matefilia.it/arturnet/numero4/riv_cop/mappa2/galileo_proc/Galileo.htm
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