Il 27 gennaio di 75 anni fa i soldati dell'Armata Rossa misero fine al più grande omicidio di massa della storia avvenuto in un unico luogo
Il 27 gennaio del 1945 i soldati
sovietici dell’Armata Rossa superarono il cancello del campo di sterminio
nazista di Auschwitz – quello con la scritta “Arbeit macht frei” – che era già
stato evacuato. Quel giorno finì ufficialmente il più grande omicidio di massa
della storia avvenuto in un unico luogo: è stato calcolato che ad Auschwitz sono morte più persone che
in qualsiasi altro campo di concentramento nazista. Sui numeri non ci sono
certezze, ma secondo i dati dell’US Holocaust Memorial Museum, le SS tedesche
uccisero almeno 960 mila ebrei, 74 mila polacchi, 21 mila rom, 15 mila
prigionieri di guerra sovietici e 10 mila persone di altre nazionalità. Oggi,
38 delegazioni provenienti da paesi di tutto il mondo partecipano alle
commemorazioni del cosiddetto “Giorno della memoria”.
Dopo l’invasione della Polonia da parte
della Germania nel settembre del 1939 – che segnò l’inizio della Seconda Guerra
Mondiale – e dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei tedeschi
(giugno 1941), le SS iniziarono a mettere in pratica operazioni di eliminazione
di massa di intere comunità di ebrei. Nel 1941 fu introdotto l’uso di camere a
gas mobili montate su autocarri e i nazisti aprirono diversi campi di
sterminio. Un ruolo fondamentale nella cosiddetta “soluzione finale” lo svolse
il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Faceva parte di un
complesso più grande che comprendeva anche il campo di sterminio di Birkenau e
il campo di lavoro di Monowitz. Ad Auschwitz-Birkenau alla fine della primavera
del 1943, funzionavano quattro camere a gas che utilizzavano la sostanza
tossica nota come Zyklon B.
Nell’estate del 1944, l’offensiva
sovietica portò l’esercito fino alla Vistola, a circa 200 chilometri dal campo di
concentramento di Auschwitz e all’inizio del 1945 ebbe inizio l’Operazione
Vistola-Oder, l’offensiva dell’Armata Rossa per muovere verso il cuore della
Germania. A quel punto, i vertici nazisti si resero conto della necessità di
procedere con lo smantellamento del lager. Le forze sovietiche entrarono nel
campo di Majdanek, vicino a Lublino, Polonia, nel luglio del 1944. Nell’estate
del 1944, l’Armata Rossa conquistò anche le zone in cui si trovavano i campi di
sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Nel novembre del 1944, due mesi prima
della liberazione, il ministro dell’interno nazista Heinrich Himmler ordinò di
distruggere le camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione (ma non
quelle di Auschwitz) e il 17 gennaio del 1945 ad Auschwitz venne fatto l’ultimo
appello generale dei prigionieri.
La SS cominciarono a evacuare il campo a
metà gennaio 1945. Migliaia di prigionieri furono uccisi mentre altri, circa 60
mila, furono costretti a un’evacuazione forzata e a prendere parte a quelle che
sarebbero poi divenute famose come “marce della morte”. Le marce procedevano in
due diverse direzioni: verso nord-ovest, fino a Gliwice, per 55 chilometri
lungo i quali venivano raccolti anche i prigionieri dei sottocampi dell’Alta
Slesia Orientale (Bismarckhuette, Althammer e Hindenburg); e verso ovest, per
circa 60 chilometri, in direzione di Wodzislaw. Durante il cammino, le SS
spararono a chiunque cedesse e non fosse più in grado di proseguire: è stato
calcolato che circa 15 mila prigionieri siano morti durante queste marce. Chi
sopravviveva veniva invece caricato su treni merci e portato nei campi di
concentramento in Germania.
Il 27 gennaio quando verso mezzogiorno le
prime truppe sovietiche del generale Kurockin entrarono ad Auschwitz trovarono
circa 7 mila prigionieri che erano stati lasciati nel campo. Molti erano
bambini e una cinquantina di loro aveva meno di otto anni (erano sopravvissuti
perché erano stati usati come cavie per la ricerca medica). I sovietici
trovarono anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere
venduti. E poi occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe: il museo di
Auschwitz, tra le altre cose, possiede più di 100 mila paia di scarpe.
L’arrivo dei soldati russi è stato
descritto da Primo Levi nel primo capitolo de “La tregua”, intitolato “Il
disgelo”. Levi si trovava nel lager di Monowitz:
La prima pattuglia russa giunse in vista
del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi
a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il
primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla
neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava:
Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo,
che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che
limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare,
scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano
imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi
vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e
reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra
il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento
umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno
di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato
un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non
armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili
sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano;
apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava
le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.
(…) Charles ed io sostammo in piedi presso
la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi
rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il
resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui
eravamo da molto tempo avvezzi.
(…) Il mattino ci portò i primi segni di
libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili
polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad
armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri.
Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la
cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi
abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero
animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie
si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per
il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i
malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un
enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul
quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo
giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato
festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico
russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a
rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi
sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di
portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco
lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al
giorno, e a cominciare dai malati più gravi.
https://www.ilpost.it/2015/01/27/liberazione-auschwitz/auschwitz-9/
Nessun commento:
Posta un commento