L’origine
storica della festa
La commemorazione liturgica dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in
continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno
completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario Fortunato di Metz
(770-850c), vescovo di Treveri (809), poneva già la memoria di tutti i
defunti successivamente a quelli dei Santi che erano già in cielo. La
festività, però, venne celebrata per la prima volta nel cristianesimo nel
998, per disposizione di Odilone di Mercoeur, abate di Cluny, che ordinò a
tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 novembre come
giorno solenne per la “Commemorazione dei defunti”.
Dal biografo del santo Odilone, san Pier Damiani, si conosce il decreto circa
la data del 2 novembre come giorno per la Commemorazione di tutti i defunti
dopo la festa di Tutti i Santi, del 1 novembre: “Venerabilis Pater Odilo per
omnia Monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut prima die
Novembris iusta universalis Ecclesiae regulam omnium Sanctorum solemnis
agitur, ita sequenti die in Psalmis, eleemosynis e paecipue Missarum
solemnis, omnium in Christo quiescentium memoria celebratur” (in Jean
Croiset, Esercizi di pietà per tutti i giorni dell’anno, Venezia 1773,
35-36). Il venerabile Padre Odilone emanò, nel 998, per tutti i suoi
monasteri cluniacensi un decreto generale, affinché, come il primo di
novembre secondo la chiesa universale si celebra la festa di tutti i Santi,
così nel giorno seguente si celebri la solenne Messa per tutti i defunti in
Cristo con salmi elemosine e canti.
A partire, poi, dal XIII secolo, con il nome di “Anniversarium Omnium
Animarum”, la festa era ormai riconosciuta da tutta la Chiesa Occidentale,
apparendo per la prima volta in veste ufficiale nell’Ordo Romanus XIV,
composto dal cardinale diacono Napoleone Orsini (1260-1342) e dal cardinale
Giacomo Caetani Stefaneschi (1270-1343), poco prima del trasferimento della
sede pontificia in Avignone (1309-1377), dove venne ampliato nel 1311, per
ordine del papa Clemente V (1305-1314).
Antropologia cristiana
Nel grande mistero dell’esistenza terrena, solo l’uomo gode della libertà ed
è responsabile delle sue azioni, perché solo lui è ritenuto artefice del suo
destino, che si proietta in una vita trascendente. Ora, non tutte le
concezioni antropologiche, che la storia registra, riconoscono l’esistenza di
un Dio che, oltre a essere Creatore, sia, nello stesso tempo, anche Giudice.
Di conseguenza, l’esistenza di vita ultraterrena, dopo la morte, non da tutte
le antropologie viene considerata, perché concepiscono la vita perfetta ed
esauriente in sé stessa, cioè “dalla culla alla tomba”, oppure ammettono la
sua ciclicità con una nuova reincarnazione.
Nell’antropologia cristiana, invece, si afferma l’esistenza di un Dio Buono,
che ha creato tutto ciò che esiste e lo mantiene in essere con la sua
Provvidenza. All’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Cristo, affida il
compito non solo di governare il mondo creato per la sua conservazione, e gli
concede anche il diritto di usarlo per il suo bene personale e per il bene di
tutti gli uomini. E di questo delicato compito “amministrativo” è
responsabile e dovrà rendere conto al suo Creatore, che, dopo la morte, sarà
anche il suo giusto Giudice. Così, al termine della vita terrena, ogni
creatura razionale libera e responsabile riceverà dal suo Signore una
valutazione del suo operato per ratificare la dovuta ricompensa circa le
opere compiute sia in bene che in male, per entrare o nella beatitudine
eterna o nell’eterno tormento.
Di questo speciale rendiconto, la teologia cristiana ne distingue due: uno
particolare e uno universale. Il primo viene emesso, dopo la morte, per
ciascun individuo; l’altro, alla fine del tempo e riguarda tutti gli uomini.
Non bisogna pensare al giudizio di Dio come una procedura giudiziale, ma come
la normale attività con cui egli realizza il suo disegno generale, che si
sviluppa in chiave di relazione personale: Dio invita e l’uomo risponde. Dal
tipo di risposta, se di accettazione libera o di libero rifiuto, anche le
conseguenze saranno diverse. Il giudizio di Dio assegna a ciascuno la giusta
ricompensa: per quelli che muoiono in Cristo, sarà una perfetta ratifica del
proprio operato svolto nel corso della vita; per quelli che muoiono lontano
da Cristo, invece, una giusta riprovazione che li condannerà a restare soli
con sé stessi nelle tenebre misteriose dell’al di là.
Alcune considerazioni teologiche
Al di là dell’occasione storica e dell’accenno antropologico generale, è
importante riflettere sul valore profondamente teologico che sottende la Commemorazione
di tutti i defunti, perché richiama all’attenzione tutto il mistero
dell’esistenza umana dalle sue origini alla sua fine, coinvolgendo
direttamente sia la causa efficiente o creativa sia la causa finale o del
giudizio ultimo. Per questo veloce riferimento dottrinale, che coinvolge la
fede, la cosa migliore è ascoltare il pensiero ufficiale della Chiesa,
espresso chiaramente e sinteticamente in alcuni documenti conciliari del
Vaticano II, con il dovuto confronto al dato rivelato.
- Comunione dei
santi
Al capitolo VII della costituzione dogmatica Lumen Gentium si parla di tre
stadi ecclesiali del Corpo Mistico: “Fino a che, dunque, il Signore non verrà
nella sua gloria, alcuni dei suoi discepoli saranno pellegrini sulla terra,
altri passati da questa vita, stanno purificandosi, e altri godono della
gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, Quale Egli è; tutti però,
sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo alla stessa carità di Dio e del
prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria” (LG 49).
Si afferma anche la realtà della Comunione dei Santi e della loro
intercessione a favore di quanti sono ancora pellegrini sulla terra: “Tutti,
infatti, quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola
Chiesa e sono tra loro uniti in Lui (Ef 4,16). L’unione quindi dei pellegrini
sulla terra con i fratelli morti nella pace di Cristo, non è minimamente
spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla
comunicazione dei beni spirituali…offrendo i meriti acquistati sulla terra
mediante cristo Gesù, unico mediatore tra Dio egli uomini” (LG 49).
E afferma, inoltre, la relazione della Chiesa pellegrinante con la
Chiesa celeste: “La Chiesa dei pellegrini sulla terra, riconoscendo benissimo
questa comunione con il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi
della religione cristiana, coltivò con grande pietà la memoria dei defunti,
e, ‘poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché
siano assolti dai peccati’ (2Mac 12, 46), ha offerto per loro anche suffragi”
(LG 51).
Fondamentale, per comprendere e vivere la Commemorazione dei defunti, è il
mistero della Comunione di tutti i membri della Chiesa in Cristo, che non
viene interrotta dalla morte, “anzi, secondo la fede, è consolidata dalla
comunicazione dei beni spirituali”, come l’Apocalisse di Giovanni conferma
con la la liturgia celeste, dove partecipano le anime dei beati, e con la
stessa liturgia terrena che, soprattutto con il sacrificio eucaristico, si
unisce al culto della Chiesa celeste insieme alla venerazione della gloriosa
Vergine Maria, degli beati apostoli, dei martiri e di tutti i santi
(specialmente i capitoli 4 e 5).
L’unione della liturgia celeste e terrena attorno all’Agnello che sta in
piedi, come immolato (Ap 5, 6), cioè “Cristo Gesù, che è morto e
risorto, e sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8, 34; Eb 7, 25),
è la condizione indispensabile per ogni forma di comunione, nella carità, tra
i vari membri dei diversi gradi della Chiesa. Per cui, secondo la fede della
Chiesa, i beati pregano per noi sulla terra e intercedono per la nostra
debolezza, e ogni nostra invocazione a loro è un riconoscimento di Dio, per
mezzo di Cristo Gesù, che è l’unico Mediatore e Redentore.
E per quanto riguarda le anime dei defunti, che dopo la morte hanno bisogno
ancora di purificazione, la Chiesa da sempre “ha offerto per loro anche i
suoi suffragi” (GS 41); e crede, che per questa purificazione “riceveranno un
sollievo [...], mediante suffragi dei fedeli viventi, come il sacrificio
della messa, le preghiere, le elemosine e le altre pratiche di pietà, che i
fedeli sono soliti offrire per gli altri fedeli, secondo le disposizioni
della Chiesa” (LG 50).
Anche i Princìpi e norme per l’uso del Messale romano spiegano abbastanza
chiaramente il senso di questo “consorzio vitale” tra i membri della Chiesa,
che raggiunge il culmine della perfezione nella celebrazione eucaristica, al
momento delle intercessioni, che così si esprime: “l’eucaristia viene
celebrata in comunione con tutta la Chiesa, sia celeste sia terrestre, e che
l’offerta è fatta per essa e per tutti i suoi membri, vivi e defunti, i quali
sono stati chiamati a partecipare alla redenzione e alla salvezza acquistata
per mezzo del corpo e del sangue di Cristo” (n. 79).
- Significato
della morte cristiana
La concezione antropologica cristiana offre un modo tutto suo di considerare
il fatto ineluttabile della morte. La morte considerata in sé stessa non è
qualcosa di desiderabile, né un avvenimento che si possa abbracciare con
animo tranquillo, senza superare la naturale ripugnanza. Nella visione
cristiana, la morte, pur essendo un fatto di diritto naturale, come ricorda
Duns Scoto, è contro la volontà di Dio (Sap 1, 13-14; 2, 23-24) e, quindi una
conseguenza del peccato: “il salario del peccato è la morte” (Rm 6, 23). La
morte allora si può considerare come fatto morale, come ricorda Paolo, e come
necessità naturale come afferma il Cantore dell’Immacolata.
Il cristiano può superare il timore della morte, appoggiandosi su altri
motivi, come la fede e la speranza, che aprono un diverso orizzonte alla
stessa morte. La morte accettata con fede e nella fede di “abitare presso il
Signore” (2Cor 5, 8) realizza il desiderio di comunione con Cristo, e giunge
anche a lodare il Signore per la morte, non in sé stessa, ma in quanto
realizza la speranza di possedere il Signore. Tale sembra la concezione
cantata da Francesco d’Assisi nel famoso Cantico delle creature. La morte
allora diventa, per il credente, come la porta che conduce alla comunione con
Cristo.
Questo sentimento positivo della morte è direttamente
proporzionato alla “morte nel Signore”, che conduce alla
beatitudine: “beati i morti nel Signore” (Ap 14, 13). In questo modo, la vita
terrena è naturalmente ordinata alla comunione con Cristo, dopo la morte, che
è un valore superiore alla vita terrena. Superiorità che giustifica il
desiderio mistico della morte, che apre la via alla vita eterna. Questo modo
di concepire la morte diventa una partecipazione al mistero pasquale di
Cristo, di cui il battesimo, nel quale si muore misticamente al peccato,
partecipa della risurrezione di Cristo (Rm 6, 3-7), e l’Eucaristia ne è la
garanzia, il fondamento e anche la perfezione: fundamentum et forma, direbbe
il Cantore dell’Immacolata.
Oltre alla “morte nel Signore”, c’è anche la possibilità della morte fuori
del Signore, che conduce alla morte seconda come ricorda l’Apocalisse (20,
14) e anche il Cantico delle creature. In questa seconda accezione della
morte, la forza del peccato, attraverso il quale la morte entrò nel mondo (Rm
5,12), manifesta, in grado sommo, la sua capacità di separare da Dio.
- L’uomo è per la
risurrezione
Anche dal concilio Vaticano II si apprende che l’uomo è per la risurrezione.
Afferma: “Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa
sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi
attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in
libertà il Creatore. [...] L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore
alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della
natura o un elemento anonimo della città umana. Difatti, nella sua
interiorità, egli trascende l’universo: a questa profonda interiorità egli
torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori,
là dove sotto lo sguardo di Dio decide del suo destino. Perciò riconoscendo
di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci
finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma,
invece, va a toccare in profondità la verità stessa delle cose” (GS 14).
L’autoconsapevolezza dell’uomo di essere superiore a tutte le altre creature
terrene ha il fondamento nella sua capacità di possedere Dio (capax Dei) sia
con la conoscenza e soprattutto con l’amore. Questa differenza fondamentale
si manifesta anche nella tendenza innata alla felicità, la quale fa sì che
l’uomo aborrisca e respinga l’idea di un suo totale annientamento con la
morte, anelando a una vita ultraterrena comunque intesa, dal momento che la
sua anima, immortale e spirituale, tende naturalmente verso la sua origine,
cioè verso il suo Creatore.
Questo riferimento antropologico fondamentale rende possibile anche una
escatologia. Difatti, la realtà dell’uomo, nell’antropologia cristiana,
include una dualità di elementi (corpo e anima), che si possono separare
temporaneamente con la morte, tanto che l’anima può sussistere separata,
conservando sempre la sua intima e profonda tendenza a riunirsi al suo corpo.
E questo perché lo stato di sopravvivenza dell’anima, dopo la morte, non è
definitivo né ontologicamente ultimo, bensì intermedio transitorio e ordinato
alla risurrezione.
Un cenno a questa interpretazione duale dell’uomo aperto alla risurrezione lo
si trova nel logion evangelico: “non abbiate paura di quelli che uccidono il
corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che
ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).
Esso, infatti, insegna che l’anima sopravviva dopo la morte terrena, finché
nella risurrezione si unisca, di nuovo, al suo corpo.
Anche nel VT si trovano affermazioni che inducono a questa
interpretazione. Si pensi, per esempio, al secondo libro dei Maccabei, al
capitolo settimo presenta il martirio per la verità come l’occasione
privilegiata, perché la fede possa illuminare sia il mistero delle origini o
creazione e sia il mistero della fine o vita eterna (2Mac 7, 9-36); e al
libro della Sapienza che parla di quelli che “agli occhi degli stolti parve
che morissero; e la loro fine fu ritenuta una sciagura” (Sap 3, 2), mentre
“le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sap 3, 1). In breve, questi
cenni biblici aiutano a comprendere con chiarezza e sicurezza di fede che il
Signore ha il potere di attuare la risurrezione degli uomini.
- La
risurrezione di Cristo e quella dell’uomo
L’apostolo Paolo scriveva ai corinzi: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto,
quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati
secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture” (1Cor 15,3-4). Ebbene Cristo non solo risuscitò di fatto, ma egli
è “la risurrezione e la vita” (Gv 11,25) ed è anche la speranza della nostra
risurrezione. Perciò i cristiani di oggi, come quelli dei tempi passati, nel
Credo niceno-costantinopolitano, nella stessa formula “dell’immortale
tradizione della santa Chiesa di Dio”, nella quale professano la fede in Gesù
Cristo, che “risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture”, aggiungono:
“Aspettiamo la risurrezione dei morti”. In questa professione di fede
riecheggiano le testimonianze del Nuovo Testamento: “Risusciteranno i morti
in Cristo” (1Ts 4,16). “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro
che sono morti” (1Cor 15,20). Questo modo di parlare implica che il fatto
della risurrezione di Cristo non è un qualcosa di chiuso in sé stesso, ma si
estenderà un giorno a quelli che sono di Cristo. Poiché la nostra
risurrezione futura è “l’estensione della medesima risurrezione di Cristo
agli uomini”, s’intende bene che la risurrezione del Signore è modello della
nostra risurrezione. La risurrezione di Cristo è pure la causa della nostra
risurrezione futura, “poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa
di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti” (1Cor 15,21).
- Comunione con Cristo dopo la morte
Dalla promessa fatta da Gesù crocifisso al buon ladrone si ricava l’esistenza
di un certo stadio intermedio tra la morte e la risurrezione, insieme
all’essere in comunione con lo stesso Cristo: “In verità ti dico: oggi sarai
con me in paradiso” (Lc 23,43). Gesù vuole accogliere il “buon ladrone” in
comunione con sé, immediatamente dopo la morte. Lo stesso Stefano, durante la
lapidazione, manifesta la medesima speranza di entrare in comunione con
Cristo: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (At 7,59), con il desiderio di
essere accolto immediatamente da Gesù nella sua comunione.
L’esistenza di uno stato intermedio è presente anche in Paolo,
specialmente quando scrive: “Per me il vivere è Cristo e il morire un
guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so
davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette, infatti, tra
queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere
con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per
voi che io rimanga nella carne” (Fil 1, 21-24).
Lo stato dopo la morte è desiderabile soltanto perché implica unione e
comunione con Cristo. Paolo con grande gioia parla della speranza della
parusia del Signore: “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per
conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Lo stato intermedio, perciò,
viene concepito come transitorio, con la speranza sempre della risurrezione:
“È necessario che questo essere corruttibile [cioè il corpo] si vesta
d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità” (1Cor
15,53).
- Quando avverrà il giudizio?
È una domanda abbastanza frequente. E Gesù spesso ammonisce: “Vegliate,
perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13); “Il Figlio dell’uomo
verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno
secondo le sue azioni” (Mt 16, 27).
Venuta gloriosa di Gesù e Giudizio universale saranno un solo e stesso
avvenimento, ultima sequenza della storia, ultimo atto della vittoria di
Cristo sul peccato e sulla morte, compimento della liberazione umana, della
divinizzazione umana.
Il principio della retribuzione divina è presente abbastanza chiaramente in
Paolo: “Il giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue
opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano
gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per
ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Rm 2, 6-8);
“tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per
ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene
che in male” (2 Cor 5,10).
- Il giudice dei vivi e dei morti
Pietro proclama a Cesarea: “Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio
lo ha risuscitato al terzo giorno... E ci ha ordinato di annunziare al popolo
e d’attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”
(At 10, 39-42).
L’espressione “dei vivi e dei morti” richiama la teoria dei Sadducei, che,
negando la risurrezione, divideva l’umanità in due categorie: al di qua della
morte, i vivi, e al di là, i morti. Gesù, invece, replica: “Quanto alla
risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio:
Io sono il Dio d’Abramo, il Dio d’ Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è
Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,32). Pertanto, Abramo, Isacco, Giacobbe e
tutti i defunti nel Signore non sono dei morti, ma dei vivi; solo che la vita
è diversa. In questo senso, Gesù nega che si possa fare distinzione fra morti
e vivi: esistono solo dei vivi. La morte non produce dei morti, ma è solo un
passaggio verso un’altra vita. Difatti, il termine “defunto” (da latino
defunctus: colui che ha abbandonato le sue funzioni sulla terra) non è un
morto in senso assoluto, ma uno che vive in un modo diverso da quello che ha
lasciato o abbandonato sulla terra. E nella sua venuta gloriosa, Cristo non
privilegerà nessuno, affinché nessuno ne risulti frustrato
Paolo, parlando della fine del mondo in cui ci saranno ancora dei “viventi”,
scrive: “Ecco, io vi annunzio un mistero: non tutti certo moriremo, ma tutti
saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono
dell’ultima tromba; suonerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno
incorrotti e noi saremo trasformati... si compirà allora la parola della
Scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria... per mezzo del Signore
nostro Gesù Cristo” (1Cor 15, 51-57).
E sempre Paolo precisa: la risurrezione è per tutti. Il Risorto non
dimenticherà nessuno dei suoi, sia esso morto che vivo, perché tutti
parteciperanno al grande giorno e alla sua festa. Scrive: “Non vogliamo poi
lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non
continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi
crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono
morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo
sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la
venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti.
Perché il Signore stesso, a un ordine... discenderà dal cielo. E prima
risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo
rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore
nell’aria, e così saremo sempre col Signore. Confortatevi dunque a vicenda
con queste parole” (1Ts 4,13).
Alle consolanti parole di Paolo, si possono aggiungere anche quelle di
Pietro per terminare questo veloce riferimento sulla Commemorazione di tutti
i fedeli defunti con la testimonianza diretta dei due grandi Apostoli: “Una
cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un
giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non
ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza
verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di
pentirsi... Quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella
pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i
cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi,
secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei
quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di
questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a
Dio, in pace” (2Pt 3, 8-14).
In breve, come la cristianità primitiva, illuminata dalla fede degli
Apostoli, interpretò il ritorno di Cristo come un avvenimento carico di
speranza e di gioia, così anche i cristiani di oggi dovrebbero aspettare con
profonda fede e gioiosa speranza il festoso giorno del “giudizio dei vivi e
dei morti”. Autore: P. Giovanni Lauriola ofm
http://www.santiebeati.it/dettaglio/20550
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