Al lavoro affannoso di questi mesi va data una
ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente
onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo
punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani [...] per
contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi
mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi.
Fuori dal coro
Walter Tobagi nasce il 18 marzo 1947 a
San Brizio, una piccola frazione a sette chilometri da Spoleto, in Umbria.
All'età di otto anni la famiglia si trasferisce a Bresso, vicino Milano (il
padre Ulderico faceva il ferroviere). Comincia a occuparsi di giornali al
ginnasio come redattore della storica «Zanzara», il giornale del liceo Parini. Di quel giornale - diventato celebre per un processo
provocato da un articolo sull'educazione sessuale - Tobagi diviene in breve
tempo il capo redattore.
Sul giornale del liceo però, si occupava
sempre meno di sport e più di argomenti quali i fatti culturali e di costume,
partecipando a polemiche appassionate. Già in quelle lontane occasioni dava
prova di abilità dialettica e di moderazione riuscendo a conciliare
conservatori ed estremisti, tolleranti e intolleranti: doti non comuni che
utilizzerà pienamente in seguito, non solo nei dibattiti all'interno del «Corriere della Sera», ma soprattutto per conciliare le diverse tendenze
dell'Associazione lombarda dei giornalisti, di cui diventerà presidente.
Dopo la fase del liceo, Tobagi era
entrato giovanissimo alI' «Avanti!» di Milano, ma era rimasto pochi mesi
passando al quotidiano cattolico «l'Avvenire», a quel tempo in fase di
ristrutturazione e di rilancio. Il direttore di quel giornale, Leonardo
Valente, ha detto: «Nel 1969, quando lo assunsi, mi accorsi di essere davanti a
un ragazzo preparatissimo, acuto e leale [...]. Affrontava qualsiasi argomento
con la pacatezza del ragionatore, cercando sempre di analizzare i fenomeni
senza passionalità. Della contestazione condivideva i presupposti, ma
respingeva le intemperanze».
Tobagi si occupava, almeno nei primi
anni, veramente di tutto, anche se andava sempre più definendosi il suo
interesse prioritario per i temi sociali, per l'informazione, per la politica e
il movimento sindacale, a cui dedicava molta attenzione anche nel suo lavoro
«parallelo», quello universitario e di ricercatore. Aveva poi iniziato a
occuparsi di problemi culturali, con note sul consumismo e sulla ricerca
storica. Celebre un suo pungente corsivo su un «mostro sacro» della letteratura
come Alberto Moravia, accusato di essere un intellettuale integrato «in
una società che trasforma tutto, anche l'arte, in oggetto di consumo».
Ma Tobagi non trascura i temi economici:
si misura in inchieste a diverse puntate sull'industria farmaceutica, la
ricerca, la stampa, l'editoria, ecc. e si mostra, in quel periodo, interessato
anche alla politica estera: segue con attenzione i convegni sull'Europa; scrive
sul Medio Oriente, sull'India, sulla Cina, sulla Spagna alla vigilia del crollo
del franchismo, sulla guerriglia nel Ciad, sulla crisi economica e
politica della Tunisia, sulle violazioni dei diritti dell'uomo nella Grecia dei
colonnelli, sulle prospettive politiche dell'Algeria e così via.
Timidamente, però, comincia anche ad
entrare sul terreno politico e sindacale dopo essersi «fatto le ossa», come
diremo, sulle vicende del terrorismo di destra e di sinistra. Scavava, con note
e interviste, nei congressi provinciali dei partiti e si divertiva a scrivere
profili di Sandro Pertini e Pietro Nenni. Scopriva l'attualità, la cronaca sull'onda delle
grandi lotte operaie degli anni '70. Comincia così a scrivere lunghi servizi
sulla condizione di lavoro dei siderurgici, dei lavoratori della Fiat Mirafiori,
sull'autunno caldo del '72, sull'inquadramento unico operai-impiegati,
sull'organizzazione del lavoro antiquata e disumana che provoca l'assenteismo,
sui roventi dibattiti per l'unità sindacale dei metalmeccanici e delle tre
confederazioni.
L'impegno maggiore di Tobagi era
costituito dalle vicende del terrorismo fascista (ma anche di sinistra). Seguì
con scrupolo tutte le intricate cronache legate alle bombe di piazza Fontana,
alle «piste nere» che vedevano coinvolti Valpreda, l'anarchico Pinelli, il provocatore Merlino oltre ai fascisti Freda e
Ventura, con tante vittime innocenti e tanti misteri rimasti avvolti
nell'oscurità più fitta ancora oggi, a distanza di venti anni, a cominciare
della morte di Pinelli all'interno della questura di Milano e dell'assassinio
del commissario Calabresi. Tobagi si interessò a lungo anche di un'altra
vicenda misteriosa: la morte di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio a Segrate per l'esplosione di
una bomba maldestramente preparata dallo stesso editore guerrigliero. Inoltre,
si interessò alle prime iniziative militari delle Br, alla guerriglia urbana
che provocava tumulti (e morti) per le strade di Milano, organizzata dai
gruppuscoli estremisti di Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia.
Un praticantato lungo e faticoso che
doveva portarlo al «Corriere d'Informazione» e, in seguito, al «Corriere della Sera», dove poté esprimere pienamente le sue potenzialità
di inviato sul fronte del terrorismo e di cronista politico e sindacale.
Giampaolo Pansa ha affermato che:
«Tobagi sul tema del terrorismo non ha mai strillato. Però, pur nello sforzo di
capire le retrovie e di non confondere i capi con i gregari era un avversario
rigoroso. Il terrorismo era tutto il contrario della sua cristianità e del suo
socialismo. Aveva capito che si trattava del tarlo più pericoloso per questo
paese. E aveva capito che i terroristi giocavano per il re di Prussia. Tobagi
sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia. Dunque, egli
aveva capito più degli altri: era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era
stato capace di mettere la mano nella nuvola nera».
Nei giorni drammatici del sequestro Moro
segue con trepidazione ogni fase della mancata trattativa e dei «colpi di
scena», valorizza ogni spiraglio che possa contribuire a salvare la vita del
presidente della Dc. Per primo - polemizzando con «brigatologi» tenta di
spiegare razionalmente che esiste una coerente continuità tra vecchie e nuove
Br e che, quindi, non vi è alcuna contrapposizione tra le Br, 'romantiche'
delle origini con le facce pulite alla Mara Cagol e le Br sanguinarie e dunque
ambigue e provocatorie degli ultimi tempi». Tobagi sfatò tanti luoghi comuni
sulle «bierre» e gli altri gruppi armati, denunciando, ancora una volta, i
pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli
altri luoghi di lavoro, come molti segnali avevano indicato con profonda
inquietudine.
«La sconfitta politica del terrorismo -
scriveva Tobagi - passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da
prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi
che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l'immagine
delle Brigate
rosse si è rovesciata, sono emerse falle
e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi
interni, sull'organizzazione e sulla linea del partito armato».
La sera prima di essere assassinato,
presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano, per discutere del
«caso Isman», un giornalista del «Messaggero», incarcerato perché aveva
pubblicato un documento sul terrorismo. Aveva parlato a lungo della libertà di
stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle
bande terroristiche: problemi che aveva studiato ormai da anni e che conosceva
a fondo. Aveva pronunciato frasi come:
«Chissà a chi toccherà la prossima
volta». Dieci ore più tardi era caduto sull'asfalto sotto i colpi di giovani killer».
(Notizie tratte da Testimone scomodo.
Walter Tobagi - Scritti scelti 1975-80, a cura di Aldo Forbice, Milano 1989) - https://biografieonline.it/biografia-walter-tobagi
Nessun commento:
Posta un commento