«Nel
triennio 1989-’91, anni difficilissimi per la finanza pubblica, Guido Carli riuscì a
difendere la lira armato quasi solo della sua credibilità», così scriveva
il Corriere della Sera del 24 aprile 1993. Il giorno
prima Guido Carli era morto. Credibilità. Una
parola desueta, eppure fondamentale: nei rapporti tra gli Stati tanti accordi
vengono presi sulla base della credibilità personale. Carli era credibile,
rigoroso, preparato. Nella classifica dei migliori governatori della Banca
d’Italia è difficile stabilire chi sia il primo (Luigi Einaudi? Guido Carli?
Carlo Azeglio Ciampi?), ma non c’è dubbio che Carli faccia parte del gruppo di
testa.
Aveva fatto della discrezione uno stile di vita, tanto che ancora oggi – a
diciotto anni dalla sua morte – non è ben chiaro perché nel 1975 si sia dimesso
da governatore (era in carica dal 1960). Carli non amava far parlare di sé e
questa sua volontà sembra proseguire ai nostri giorni: la voce di Wikipedia che lo riguarda
è incredibilmente succinta, per un uomo di tanta importanza. Un po’ come se
avesse voluto mettere in pratica il celeberrimo detto di Enrico Cuccia: «Un
banchiere può commettere due peccati: uno veniale, scappare con la cassa, e uno
mortale, parlare».
Guido Carli nasce a Brescia il 28 marzo 1918 e si laurea in giurisprudenza
a Padova. Suo padre Filippo, economista, appoggia il regime fascista e con ogni
probabilità la fedeltà del genitore aiuta il fatto che il brillantissimo
neolaureato entri nel 1938 all’Iri come funzionario. A inizio anni Quaranta
collabora con la Confederazione fascista dell’industria, la futura
Confindustria, di cui sarebbe divenuto presidente dal 1976 al 1980, voluto da
Gianni Agnelli. Nel 1943 si avvicina ai liberali romani e nel 1945 Luigi
Einaudi lo chiama a occuparsi del neonato Ufficio italiano cambi. Anche le
posizioni politiche di Carli sono sempre state un po’ enigmatiche: vicino al
Partito d’azione prima e ai repubblicani di Ugo La Malfa poi, diventa ministro
per il Commercio con l’estero nel monocolore democristiano di Adone Zoli, nel
1957. Nel 1983 (e poi ancora nel 1987) si fa eleggere senatore nelle fila della
Dc. Non viene rieletto nel 1992, ma ha fatto in tempo a essere ministro del
Tesoro con Andreotti, dal 1989 al 1992.
Il
governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, illustra il plastico del
complesso degli edifici delle Officine Carte valori e del nuovo Centro
Elettronico al Presidente della repubblica Saragat e al ministro del tesoro
Emilio Colombo nel gennaio 1969
Dopo la
seconda guerra mondiale, partecipa con la delegazione italiane alle trattative
di pace di Parigi e nel 1947, diventa direttore esecutivo per l’Italia del Fondo
monetarui internazionale, dal 1953 al 1959 è direttore del Mediocredito. «Lo
conobbi alle prime armi della mia esperienza internazionale quando, verso la
fine degli anni Cinquanta, mi trovavo a Lussemburgo come funzionario della
divisione finanziaria della Ceca, la Comunità europea per il carbone e l’
acciaio. Carli, nella sua veste di direttore e poi consulente dell’Ufficio
italiano dei cambi, mi aiutò a risolvere complessi problemi valutari che si
ponevano in relazione alle operazioni finanziarie della Ceca in Italia. Fu in
queste circostanze che potei apprezzarne non solo la straordinaria padronanza
della materia ma, soprattutto, l’impostazione liberistica che lo portava a
superare agilmente intralci burocratici e norme troppo restrittive. Una
caratteristica questa che segnò tutta la sua successiva attività alla Banca d’
Italia e al governo», così all’indomani della morte lo ricorda Sergio
Siglienti, al tempo presidente della Comit.
Dal 1960, come detto, Guido Carli diventa governatore della Banca d’Italia.
«Chi lo ricorda, ha ancora davanti agli occhi un vero e proprio manager moderno
che passava gran parte del suo tempo girando per ogni stanza di quell’immenso e
austero palazzo non per controllare, ma per rendersi conto, per partecipare al
lavoro di tutti e tutti galvanizzare sul suo progetto di fare della Banca il
maggiore, più attrezzato, e perciò il più autorevole, punto di riferimento
dell’economia italiana. Voleva il meglio degli uomini e da ciascuno pretendeva
il meglio perché la Banca doveva mettersi in grado di sostenere e affermarsi in
ogni confronto: con il sistema bancario, con il mondo accademico, con gli
esponenti politici», scrive Alfredo Recanatesi nella Stampa del 24 aprile 1993.
Guido
Carli in visita agli stabilimenti siderurgici di Taranto nel novembre del 1964
La
vocazione europeista dell’ex governatore è sottolineata da un Mario Monti al
tempo rettore della Bocconi. «La visione europea dell’Italia,
che Carli ha avuto tra i primi e per la quale ha condotto innumerevoli
battaglie, era la semplice e ostinata conseguenza della sua cultura europea e
internazionale.
Le cerchie più autorevoli della comunità finanziaria e accademica
internazionale percepivano Guido Carli come “uno di loro”, curiosamente
capitato in un Paese che gli assomigliava poco. Su Carli governatore per 15
anni, potranno pronunciarsi solo gli storici. È indubbio che egli abbia portato
l’attività della Banca d’Italia a un grado di estensione, incisività, prestigio
e potere senza precedenti».
Guido Carli amava definirsi grand-commis dello
Stato, ma con una concezione molto più simile al civil servant britannico che al burocrate
italiano. Tuttavia questa sua concezione da galantuomo d’altri tempi alla fine
si rivelerà un limite. Amava ripetere che «è garanzia di democrazia il pluralismo
delle istituzioni, non il pluralismo nelle istituzioni» e, scriveva Recanatesi
nella Stampa, «riteneva che il suo ruolo fosse sempre e
comunque subordinato alle scelte di chi traeva dal voto popolare la
legittimazione del proprio potere. Mettendo in pratica questa sua filosofia,
infatti, Carli non ha solo assecondato la realizzazione dei disegni politici
imposti dal potere legittimato dal voto, ma ha anche consentito a quel potere
di continuare a legittimarsi col voto malgrado l’evidente danno che le sue
scelte andavano determinando». E soltanto pochi mesi prima di morire, «deluso e
amareggiato per l’esito della sua esperienza al Tesoro al fianco di Andreotti e
Pomicino, ammise di aver favorito la crescita e il consolidamento di una classe
politica mediocre. Ma – aggiunse – “ho ritenuto che fosse importante non
consentire al Pci di andare al potere. Il Pci – sono ancora sue parole – faceva
proposte catastrofiche delle quali oggi molti si sono scordati”». Di sicuro un
economista della statura di Carli non poteva andare d’accordo, negli anni
Sessanta e Settanta, con un Pci che ancora guardava all’Urss come un faro (la
dichiarazione berlingueriana sull’esaurimento della spinta propulsiva della
rivoluzione d’Ottobre è del 1981). In ogni caso Carli guardava con interesse
alla sinistra laica, per esempio tenendo una rubrica sull’Espresso con lo pseudonimo Bancor. Un banchiere
centrale che scrive commenti in un settimanale di sinistra non è un fatto
usuale, e infatti non si conosceva chi si celasse dietro quella firma,
altrimenti anche molti spocchiosetti lettori dell’Espresso avrebbero
inarcato più di un sopracciglio sapendo che nel loro periodico d’opposizione
preferito scriveva un signore che era stato banchiere centrale e ministro nei
governi democristiani.
Alessandro Marzo Magno - https://www.linkiesta.it/2011/10/guido-carli-luomo-che-aveva-solo-unarma-la-credibilita/
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