Oggi,
settantacinque anni fa, oltre 600 persone morirono asfissiate nel più grave
disastro ferroviario italiano rimasto a lungo sconosciuto
Settantacinque anni fa, il 3
marzo 1944, in un luogo sperduto di un’Italia che dopo l’armistizio dell’8 settembre aveva di fatto smesso di
essere Italia, avvenne uno dei più gravi disastri ferroviari del Novecento.
Lungo il tratto lucano della linea Napoli-Potenza un treno merci con a bordo
tra i 600 e i 700 passeggeri, quasi tutti campani, rimase bloccato per ore nel
cuore della notte in una delle gallerie della tratta per una lunga serie di
concause e negligenze. Quando i primi soccorritori arrivarono sul posto si
trovarono davanti a una scena spaventosa.
Alle prime luci dell’alba, in
uno dei luoghi meno accessibili d’Italia, centinaia di cadaveri giacevano
ovunque, sia ai lati che a bordo del treno, dall’imbocco della galleria fino a
circa mezzo chilometro più in fondo. Erano uomini, donne e bambini, soldati e
macchinisti. I sopravvissuti furono appena una ventina.
Il disastro di Balvano è il più
grave incidente ferroviario mai accaduto in Italia e fra i più gravi al mondo
per numero di vittime. Ancora oggi non si ha una stima precisa di quante
persone morirono veramente a bordo di quel treno: le stime più citate parlano
di più di 500 passeggeri morti (521 per la precisione), ma le testimonianze
dell’epoca ricordano oltre 600 cadaveri. Anche sulle cause del disastro non
esistono vere e proprie certezze, perché, come per il conteggio delle vittime,
il fatto avvenne nel periodo più drammatico della Seconda guerra mondiale in
Italia.
Dall’anno precedente il paese
era diviso a metà: da un lato il Regno del Sud, liberato dagli Alleati, e
dall’altro la Repubblica di Salò sotto il controllo della Germania nazista. La
popolazione era ridotta alla fame, soprattutto nelle regioni del sud, dove nelle
loro ritirate i soldati tedeschi razziarono tutto quello che poterono togliendo
alla popolazione anche quel poco che le era rimasto.
In un contesto storico del
genere, un fatto così sconvolgente come quello di Balvano, oltre a perdersi fra
le cronache belliche provenienti da tutto il mondo, fu immediatamente
sottoposto a censura da parte delle forze alleate. Molti documenti redatti nel
corso delle indagini vennero fatti sparire. Il resto venne offuscato da
testimonianze contraddittorie raccolte peraltro da persone traumatizzate,
affamate e poco istruite. Se oggi il disastro di Balvano può essere ricostruito
in maniera dettagliata lo si deve soprattutto alle indagini portate avanti nel
corso degli anni da Gianluca Barneschi, avvocato e scrittore romano che le ha
raccolte nel libro Balvano 1944 – Indagine su un disastro rimosso, scritto nei primi anni
Duemila e ripubblicato nel 2014 dalla Libreria Editrice Goriziana.
2 marzo 1944
Il treno 8015 partì da Napoli
la mattina del 2 marzo per poi cambiare numero d’identificazione in 8017 a
Battipaglia. Era diretto a Potenza e forse destinato alla raccolta di legname
per scopi militari. Sebbene fosse un treno merci, a bordo del convoglio
salirono comunque centinaia di persone, alcune delle quali dovettero farlo
perché il treno passeggeri diretto a Bari del giorno precedente era stato preso
d’assalto e completamente occupato già alla partenza da Napoli.
La maggior parte dei passeggeri
del treno 8017 era diretta in Basilicata, forse in Puglia, per scambiare
utensili e stoffe in cambio di cibo: in quel periodo il baratto era l’unica
fonte di approvvigionamento per la popolazione del Sud Italia. A Napoli,
Salerno, Battipaglia ed Eboli — le principali stazioni toccate dalla linea — il
treno 8017 si riempì di oltre 600 passeggeri clandestini, che trovarono posto
all’interno dei vagoni merci, aggrappati ai lati delle carrozze e in ogni altro
punto che lo permettesse.
Le ferrovie erano amministrate
dalle forze alleate con manodopera italiana. Alle stazioni di Salerno e
Battipaglia i soldati Alleati cercarono di far scendere i passeggeri sparando
in aria con le armi d’ordinanza, ma questi tentativi furono di fatto inutili
perché chi venne fatto scendere risalì sul treno alla prima occasione buona,
qualche metro dopo. Da Battipaglia in poi non ci furono più disordini e il
treno proseguì indisturbato verso Potenza. Il sovraffollamento fu però la prima
causa del disastro. Il treno 8017 continuò a essere considerato un trasporto
merci anche se a bordo c’erano oltre 600 passeggeri. Nonostante l’intervento
dei militari, lungo la tratta nessun dipendente delle ferrovie segnalò la
presenza di un così alto numero di clandestini a bordo, probabilmente anche
perché all’epoca spesso si viaggiava così.
La linea ferroviaria
Napoli-Potenza era una delle più ostiche e isolate d’Italia. Dal confine tra
Campania e Basilicata i binari si inerpicavano tra monti e torrenti attraverso
decine di gallerie scavate con pendenze che si avvicinavano ai limiti imposti
per la percorrenza. I pericoli di quella linea erano già noti. Nelle frequenti
gallerie tra le due regioni gli incidenti per intossicazione da monossido di
carbonio erano frequenti, così come in altre zone simili d’Italia. Per questo
motivo all’epoca era usanza posizionare dei macchinisti di riserva al termine
delle gallerie più lunghe con il compito di saltare a bordo delle locomotive in
corsa e governarle al posto dei macchinisti svenuti o storditi in cabina. Gli
stessi macchinisti sapevano inoltre che, in prossimità delle gallerie, dovevano
coprirsi naso e bocca con un panno bagnato per evitare svenimenti.
Il treno 8017 fu trainato
inizialmente da una locomotiva a vapore di fabbricazione austriaca, alla quale
poi venne aggiunta una più potente di fabbricazione italiana. Le due locomotive
vennero posizionate in testa al treno, scelta che si aggiunse poi alle cause
del disastro. All’epoca, infatti, i ferrovieri consigliavano che nel caso ci
fossero due locomotive a traino di un solo treno, una dovesse essere posta in
testa e l’altra in coda. Questo per evitare l’accumulo di gas velenosi
all’interno delle gallerie. L’8017, tuttavia, continuò la sua corsa con due
locomotive in testa, le quali, peraltro, presentavano postazioni di guida ai
lati opposti per via delle diverse origini di fabbricazione (una italiana,
l’altra austriaca). Come se non bastasse, a Battipaglia vennero aggiunti altri
vagoni merci che portarono la lunghezza complessiva del treno a oltre 400 metri
per un peso mai quantificato esattamente, ma con ogni probabilità superiore ai
limiti previsti per quella linea.
Una delle ultime cause del
disastro fu il carbone delle locomotive. Dopo lo sbarco degli Alleati e il
ritiro delle truppe tedesche, le ferrovie del meridione smisero di usare
carbone tedesco proveniente dalla regione della Ruhr, generalmente considerato
di buona qualità, e iniziarono a servirsi esclusivamente di carbone fornito dalle
forze alleate, di provenienza sconosciuta e di bassa qualità, quindi con
un’alta presenza di scorie e cenere al suo interno. La scarsa qualità del
carbone, oltre a ostruire più facilmente le locomotive, forniva meno potenza e
produceva una maggior quantità di gas nocivi, peggiorando quindi i rischi per
macchinisti e passeggeri nei tratti in galleria.
3 marzo 1944
Il treno 8017 arrivò alla
piccola stazione di Balvano, isolata località appena oltre il confine campano,
dopo la mezzanotte. La stazione era compresa tra due gallerie e il treno si
fermò per quasi un’ora lasciando all’interno di una di esse quasi metà del
convoglio. I passeggeri rimasti in galleria iniziarono quindi a intossicarsi
già prima dell’arrivo nella galleria Delle Armi, dove avvenne il disastro. La
galleria in questione era lunga oltre un chilometro ed era già nota per essere
poco ventilata. Per giunta, pochi minuti prima dell’arrivo del treno 8017,
un’altra locomotiva a vapore l’aveva percorsa lasciando al suo interno un
ristagno di gas velenosi.
I macchinisti delle due locomotive del
treno 8017 si resero conto quasi immediatamente della situazione all’interno
della galleria, ma presero decisioni opposte: uno cercò di aumentare la potenza
(il treno viaggiava a passo d’uomo) per raggiungere l’uscita al più presto,
l’altro invertì il senso di marcia per tornare indietro. Il treno iniziò a
slittare sui binari umidi e, secondo le testimonianze, si mosse avanti e
indietro per alcuni minuti fino all’intervento del frenatore in coda al treno,
che quando avvertì il cambio di marcia in pendenza bloccò le ruote del
convoglio come da regolamento. Il treno si bloccò quindi all’interno della
galleria lasciando fuori soltanto due vagoni.
Macchinisti e fuochisti furono
probabilmente i primi a morire asfissiati, tranne uno, che si salvò perché
svenne e cadde giù dalla cabina finendo sopra un rigagnolo d’acqua che portava
con sé un filo di ossigeno. Chi si salvò conosceva i rischi dei gas nelle
gallerie, o se ne rese conto per tempo, si coprì il volto con sciarpe o altri
indumenti e uscì all’aria aperta. Ma tutti gli altri, cioè tra le 500 e le 600
persone, restarono all’interno della galleria e morirono intossicati dal
monossido di carbonio rilasciato dalle locomotive. Alcuni non fecero in tempo a
uscire dalla galleria e crollarono ai lati del treno, venendo poi calpestati da
altri passeggeri in fuga. Altri ancora morirono nel sonno, o con la sigaretta
in mano, ignari del pericolo. I pochi che vennero tirarti fuori vivi ma privi
di sensi dalla galleria ebbero danni cerebrali permanenti.
L’allarme venne dato soltanto alle cinque
del mattino e i soccorritori arrivarono sul posto verso le sette. Le locomotive
ancora accese continuarono quindi a rilasciare gas velenosi per ore,
intossicando anche chi si sarebbe potuto salvare con un intervento più
tempestivo.
I soccorritori trainarono il convoglio
fino alla stazione di Balvano, dove i carabinieri avevano radunato decine di
volontari provenienti dal centro abitato. I corpi dei passeggeri vennero
disposti in fila lungo i marciapiedi della stazione in attesa di un’altra
destinazione. I militari arrivati alla stazione proposero di bruciarli in un
campo poco lontano, ma furono fermati da un abitante di Balvano, proprietario
di un appezzamento di terra confinante con il cimitero del paese che donò per
la sepoltura. In giornata venne quindi scavata una fosse comune sotto la mura
di cinta del cimitero dove i corpi, trasportati con dei furgoncini, vennero
seppelliti.
Le forze alleate vennero subito a
conoscenza del disastro e imposero la censura per evitare lo scoraggiamento
della popolazione alla diffusione della notizia. L’indagine condotta dagli
alleati fu lunga e dettagliata ma giunse troppo frettolosamente alle
conclusioni. La causa della tragedia fu identificata unicamente nella scarsa
qualità del carbone, che però non essendo perseguibile penalmente fece
concludere le indagini con un nulla di fatto.
Tanti passeggeri morti sul treno 8017 non
vennero mai identificati e solo alcuni famigliari ebbero diritto a un
indennizzo negli anni successivi. La notizia del disastro di Balvano ci mise
anni a diffondersi nel resto del paese con la giusta proporzione. Soltanto nel
dopoguerra inoltrato vennero pubblicate le prime ricostruzioni dettagliate
dell’accaduto. Oggi, a ricordo del disastro di Balvano, esistono soltanto poche
lapidi e vie intitolate ai passeggeri del treno nei loro paesi di provenienza.
Pietro Cabrio
https://www.ilpost.it/2019/03/03/balvano-1944/
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