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venerdì 27 settembre 2019

Lo Sapevate Che: Cultura: Mario Calabresi: il giorno che incontrai Pietrostefani


Anticipiamo un capitolo del nuovo libro di Mario Calabresi, in uscita il 17 settembre. L’ex direttore di “Repubblica” racconta di quando a Parigi guarda negli occhi l’uomo condannato per la morte del padre di MARIO CALABRESI


Rimaneva una cosa da fare, per mettere ordine e fare i conti con il passato. Il giorno dopo finisce quando i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi immaginato. Dovevo fare un incontro che avevo evitato diciassette anni prima. Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre.



Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio. A un certo punto dei processi andò a vivere in Francia. Dopo la sentenza di Cassazione che confermò la condanna definitiva tornò in Italia e passò due anni nel carcere di Pisa. Poi venne accordata una revisione del processo, che si tenne a Mestre. Prima della sentenza della Corte d’appello di Venezia, la quindicesima di un percorso durato dodici anni, che rigettava la richiesta di revisione e confermava le condanne, fuggì a Parigi. Non è mai più tornato. E nessuno lo ha mai chiesto indietro con convinzione.



Così ha vissuto libero in Francia per più di vent’anni. Nell’estate del 2002, nei giorni in cui si giocavano i mondiali di calcio di Giappone e Corea del Sud, ero a Parigi per seguire le elezioni politiche. Una sera un collega mi invitò a casa sua per vedere la partita dell’Italia, ma prima di accettare venni a sapere che in quel salotto, nella poltrona di fronte alla televisione, ci sarebbe stato Giorgio Pietrostefani. L’idea di trovarmelo davanti, in un contesto di svago, non era sopportabile, cosi non andai. Pensai che era curioso che tanti lo conoscessero e lo frequentassero ma per lo Stato italiano fosse un latitante. Anni dopo avremmo saputo anche che riceve regolarmente una pensione grazie ai contributi versati quando lavorava in Italia. Ogni volta che sono stato in Francia in questi anni ho immaginato di andare a cercarlo, c’erano molte cose che avrei voluto chiedergli e volevo guardarlo negli occhi, oltre quegli occhiali. Poi c’era sempre qualcosa da fare capace di esentarmi da quella fatica.



Finché l’arresto e l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac fuggito prima in Francia e poi in Brasile, hanno riportato il tema dei latitanti della stagione del terrorismo nel dibattito politico e sulle prime pagine dei giornali. Nei miei ultimi giorni di lavoro a Repubblica ho saputo che il suo nome era in cima alla lista della dozzina di ex terroristi di cui il ministero della Giustizia chiede finisca la latitanza parigina. Era stato anche lui protetto in nome della “dottrina Mitterrand”. Ma l’accoglienza garantita da quel presidente francese, che regnò per tutti gli anni Ottanta e per ben metà del decennio successivo, si sarebbe dovuta applicare solo a chi non aveva le mani sporche di sangue. Ho trovato il tempo per andare a cercare i documenti e le interviste di François Mitterrand e non ci sono molte cose da interpretare.



Ho cercato allora di capire che fine avesse fatto Pietrostefani, ormai aveva passato la metà dei settanta, e dove vivesse. Ho scoperto che aveva avuto un trapianto di fegato e che viveva quasi più negli ospedali che a casa. Allora ho sentito che era tempo di farlo. Non c’erano più impegni urgenti e pressanti. E avevo chiara la sensazione che se l’avessi evitato di nuovo e l’incontro non ci fosse stato, un giorno avrei considerato tutto questo un’occasione perduta.



Ho cercato un contatto che non desse spettacolo, che fosse riservato. L’ho trovato e ci ho messo due mesi per arrivare in fondo. Ho avvisato mia madre, che mi ha chiesto cosa mi aspettassi e mi ha aiutato a trovare lo spirito giusto. Lei ci aveva pensato molto e alla fine mi ha ripetuto tre volte la stessa frase: «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita».



Quella mattina esco all’alba, cammino per più di due ore per Parigi, facendo il giro di tutti i posti che hanno qualcosa da dirmi. Il ristorante dove Tonino ci ha fatto provare per la prima volta le ostriche, nell’unico viaggio che abbiamo fatto tutti insieme fuori dall’Italia. Resta una foto bellissima con tutti e quattro i figli appoggiati al muretto di un ponte sulla Senna. Vado in Rue Mouffetard dove il mio amico Corso mi portava a prendere delle gigantesche crêpe salate e scendo a Notre-Dame. Non ci sono ancora turisti ma è tutto transennato, la cattedrale ferita si può guardare solo da lontano. È ancora in piedi e le due torri della facciata danno un senso di forza e di appartenenza che va oltre la cronaca e appartiene alla Storia.



Poi arriva il primo pullman di turisti, scarica un fiume di asiatici che cominciano a farsi selfie con uno degli sfondi più famosi del mondo. È tempo di andare. Si alza un vento fortissimo, annuncia tempesta. Ho imparato la puntualità, arrivare in anticipo mi sembra una delle più belle conquiste di questo tempo nuovo. L’uomo che mi trovo di fronte ha la barba bianca, è talmente magro da sembrare la metà di quello di un tempo. Ha quasi 76 anni, ne aveva 28 quel 17 maggio 1972 quando spararono a mio padre. Io avevo due anni e mezzo.



Infagottato in un giubbotto verde, con gli occhiali da sole quadrati che aveva anche ai tempi del processo. Lo vedo che cammina avanti e indietro di fronte all’albergo, guarda continuamente l’ora, è anche lui in anticipo.



Allora esco e gli vado incontro, anche se non sono sicuro che sia lui perché è irriconoscibile. Solo gli occhi, noto dopo, ricordano chi era. È teso. Deve aver dormito peggio di me. Incontrare uno che somiglia cosi tanto a quel poliziotto contro cui scatenarono una delle più violente campagne di odio della storia del nostro paese, fino al suo omicidio, non deve essere facile. Fare i conti con la Storia nemmeno. Parliamo per mezz’ora, seduti nella hall di un anonimo albergo popolato solo di turisti americani. C’è stato un momento, molti anni fa, in cui mia madre decise che pubblico e privato si sarebbero separati per sempre. Che non avremmo più parlato di processi. Chiedevamo giustizia e, seppur dopo tanti anni, l’abbiamo ottenuta, tutto il resto — dall’esecuzione delle pene, ai permessi, all’estradizione fino alle grazie — non spettava a noi ma allo Stato.



Ricordo l’esatto momento in cui mia madre mi disse che era giusto fare cosi. Eravamo seduti in macchina sotto casa della nonna, chissà perché. Forse perché lei era l’unica ad avere il computer e la stampante, nonostante i suoi ottant’anni. Dovevamo compilare un modulo per dare il nostro parere sulla richiesta di grazia per Ovidio Bompressi, condannato per aver sparato a mio padre, il presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi.



Il modulo prevedeva che noi potessimo dire sì o no. Mia madre si rifiutò e ragionò: non siamo nel Medioevo che una famiglia decide se una persona deve stare o meno in carcere, la giustizia non può essere un fatto privato, tanto che viene amministrata in nome del popolo italiano. Lo Stato deve avere il coraggio delle sue decisioni, assumendosene la responsabilità. Non può nascondersi dietro una famiglia. Noi ci rimettiamo all’interesse generale, non ci metteremo di traverso e non commenteremo in alcun modo, faccia il presidente della Repubblica quello che ritiene giusto per l’Italia. Da quel momento mia madre non ha più detto una parola sulle vicende e ha intrapreso con convinzione un processo di pacificazione interiore. Un percorso privato, con cui ha sempre cercato di contaminare me e i miei fratelli. Questi percorsi sono fatti di passi avanti e marce indietro, ma sono fondamentali per trovare una pace interiore. Cosi sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi vent’anni. Dovevo farlo.



Adesso, il mio giorno dopo era finito davvero.

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