Anticipiamo un
capitolo del nuovo libro di Mario Calabresi, in uscita il 17 settembre. L’ex
direttore di “Repubblica” racconta di quando a Parigi guarda negli occhi l’uomo
condannato per la morte del padre di MARIO CALABRESI
Rimaneva una cosa da fare,
per mettere ordine e fare i conti con il passato. Il giorno dopo finisce quando
i conti sono regolati, quando ti fai una ragione delle cose e puoi provare a guardare
avanti, anche se quel davanti magari è molto diverso da quello che avevi
immaginato. Dovevo fare un incontro che avevo evitato diciassette anni prima.
Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è
stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre.
Lo ricordo ai processi, la
faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava
fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni
e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava
molto disagio. A un certo punto dei processi andò a vivere in Francia. Dopo la
sentenza di Cassazione che confermò la condanna definitiva tornò in Italia e
passò due anni nel carcere di Pisa. Poi venne accordata una revisione del
processo, che si tenne a Mestre. Prima della sentenza della Corte d’appello di
Venezia, la quindicesima di un percorso durato dodici anni, che rigettava la
richiesta di revisione e confermava le condanne, fuggì a Parigi. Non è mai più
tornato. E nessuno lo ha mai chiesto indietro con convinzione.
Così ha vissuto libero in
Francia per più di vent’anni. Nell’estate del 2002, nei giorni in cui si
giocavano i mondiali di calcio di Giappone e Corea del Sud, ero a Parigi per
seguire le elezioni politiche. Una sera un collega mi invitò a casa sua per
vedere la partita dell’Italia, ma prima di accettare venni a sapere che in quel
salotto, nella poltrona di fronte alla televisione, ci sarebbe stato Giorgio
Pietrostefani. L’idea di trovarmelo davanti, in un contesto di svago, non era
sopportabile, cosi non andai. Pensai che era curioso che tanti lo conoscessero
e lo frequentassero ma per lo Stato italiano fosse un latitante. Anni dopo
avremmo saputo anche che riceve regolarmente una pensione grazie ai contributi
versati quando lavorava in Italia. Ogni volta che sono stato in Francia in
questi anni ho immaginato di andare a cercarlo, c’erano molte cose che avrei
voluto chiedergli e volevo guardarlo negli occhi, oltre quegli occhiali. Poi c’era
sempre qualcosa da fare capace di esentarmi da quella fatica.
Finché l’arresto e
l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac fuggito prima in
Francia e poi in Brasile, hanno riportato il tema dei latitanti della stagione
del terrorismo nel dibattito politico e sulle prime pagine dei giornali. Nei
miei ultimi giorni di lavoro a Repubblica ho saputo che il suo nome era in cima
alla lista della dozzina di ex terroristi di cui il ministero della Giustizia
chiede finisca la latitanza parigina. Era stato anche lui protetto in nome
della “dottrina Mitterrand”. Ma l’accoglienza garantita da quel presidente
francese, che regnò per tutti gli anni Ottanta e per ben metà del decennio
successivo, si sarebbe dovuta applicare solo a chi non aveva le mani sporche di
sangue. Ho trovato il tempo per andare a cercare i documenti e le interviste di
François Mitterrand e non ci sono molte cose da interpretare.
Ho cercato allora di capire
che fine avesse fatto Pietrostefani, ormai aveva passato la metà dei settanta,
e dove vivesse. Ho scoperto che aveva avuto un trapianto di fegato e che viveva
quasi più negli ospedali che a casa. Allora ho sentito che era tempo di farlo.
Non c’erano più impegni urgenti e pressanti. E avevo chiara la sensazione che
se l’avessi evitato di nuovo e l’incontro non ci fosse stato, un giorno avrei
considerato tutto questo un’occasione perduta.
Ho cercato un contatto che
non desse spettacolo, che fosse riservato. L’ho trovato e ci ho messo due mesi
per arrivare in fondo. Ho avvisato mia madre, che mi ha chiesto cosa mi
aspettassi e mi ha aiutato a trovare lo spirito giusto. Lei ci aveva pensato
molto e alla fine mi ha ripetuto tre volte la stessa frase: «Digli che io ho
perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita».
Quella mattina esco
all’alba, cammino per più di due ore per Parigi, facendo il giro di tutti i
posti che hanno qualcosa da dirmi. Il ristorante dove Tonino ci ha fatto
provare per la prima volta le ostriche, nell’unico viaggio che abbiamo fatto
tutti insieme fuori dall’Italia. Resta una foto bellissima con tutti e quattro
i figli appoggiati al muretto di un ponte sulla Senna. Vado in Rue Mouffetard
dove il mio amico Corso mi portava a prendere delle gigantesche crêpe salate e
scendo a Notre-Dame. Non ci sono ancora turisti ma è tutto transennato, la
cattedrale ferita si può guardare solo da lontano. È ancora in piedi e le due
torri della facciata danno un senso di forza e di appartenenza che va oltre la
cronaca e appartiene alla Storia.
Poi arriva il primo pullman
di turisti, scarica un fiume di asiatici che cominciano a farsi selfie con uno
degli sfondi più famosi del mondo. È tempo di andare. Si alza un vento
fortissimo, annuncia tempesta. Ho imparato la puntualità, arrivare in anticipo
mi sembra una delle più belle conquiste di questo tempo nuovo. L’uomo che mi
trovo di fronte ha la barba bianca, è talmente magro da sembrare la metà di
quello di un tempo. Ha quasi 76 anni, ne aveva 28 quel 17 maggio 1972 quando
spararono a mio padre. Io avevo due anni e mezzo.
Infagottato in un giubbotto
verde, con gli occhiali da sole quadrati che aveva anche ai tempi del processo.
Lo vedo che cammina avanti e indietro di fronte all’albergo, guarda
continuamente l’ora, è anche lui in anticipo.
Allora esco e gli vado
incontro, anche se non sono sicuro che sia lui perché è irriconoscibile. Solo
gli occhi, noto dopo, ricordano chi era. È teso. Deve aver dormito peggio di
me. Incontrare uno che somiglia cosi tanto a quel poliziotto contro cui
scatenarono una delle più violente campagne di odio della storia del nostro
paese, fino al suo omicidio, non deve essere facile. Fare i conti con la Storia
nemmeno. Parliamo per mezz’ora, seduti nella hall di un anonimo albergo
popolato solo di turisti americani. C’è stato un momento, molti anni fa, in cui
mia madre decise che pubblico e privato si sarebbero separati per sempre. Che
non avremmo più parlato di processi. Chiedevamo giustizia e, seppur dopo tanti
anni, l’abbiamo ottenuta, tutto il resto — dall’esecuzione delle pene, ai
permessi, all’estradizione fino alle grazie — non spettava a noi ma allo Stato.
Ricordo l’esatto momento in
cui mia madre mi disse che era giusto fare cosi. Eravamo seduti in macchina
sotto casa della nonna, chissà perché. Forse perché lei era l’unica ad avere il
computer e la stampante, nonostante i suoi ottant’anni. Dovevamo compilare un
modulo per dare il nostro parere sulla richiesta di grazia per Ovidio
Bompressi, condannato per aver sparato a mio padre, il presidente della
Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi.
Il modulo prevedeva che noi
potessimo dire sì o no. Mia madre si rifiutò e ragionò: non siamo nel Medioevo
che una famiglia decide se una persona deve stare o meno in carcere, la
giustizia non può essere un fatto privato, tanto che viene amministrata in nome
del popolo italiano. Lo Stato deve avere il coraggio delle sue decisioni,
assumendosene la responsabilità. Non può nascondersi dietro una famiglia. Noi
ci rimettiamo all’interesse generale, non ci metteremo di traverso e non
commenteremo in alcun modo, faccia il presidente della Repubblica quello che
ritiene giusto per l’Italia. Da quel momento mia madre non ha più detto una
parola sulle vicende e ha intrapreso con convinzione un processo di
pacificazione interiore. Un percorso privato, con cui ha sempre cercato di
contaminare me e i miei fratelli. Questi percorsi sono fatti di passi avanti e
marce indietro, ma sono fondamentali per trovare una pace interiore. Cosi sono
andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi vent’anni.
Dovevo farlo.
Adesso, il mio giorno dopo
era finito davvero.
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