Ritenevo che l’infanzia
avesse un’influenza fondamentale per il futuro adulto e le sue caratteristiche,
finché non ho letto Conversazioni di
Iosif Brodskij, che in proposito dice: “Il mio atteggiamento potrà forse
apparire semplicistico, ma non riesco ad apprezzare tutta l’importanza che
Freud dà a questa fase della vita. Non credo che vi risiedano tutte le risposte
ai comportamenti dell’adulto. Piuttosto parlerei di fuga dall’infanzia. Della
psicoanalisi è proprio questo a darmi fastidio: ricorrere all’infanzia per
creare nel soggetto uno stato mentale di vittimismo. In un certo senso riversa
la responsabilità su altri, liberando l’individuo dal dovere di rispondere dei
propri atti. Così crea una cultura della vittima, e con il suo indice
accusatorio gira a 360 gradi in cerca di qualcuno da incolpare”. Da una parte
mi viene voglia di rifiutare brutalmente questa affermazione, da un’altra mi
sembra illuminante nella sua forza provocatoria rispetto a certe degenerazioni
della psicanalisi da talk show.
Roberto Branca roberto_branca@liberto.it
Quando veniamo
al mondo non disponiamo di nessun codice per orientarci. Percepiamo solo il
seno di nostra madre, che non riconosciamo neppure come persona altra da noi.
Solo a poco a poco e molto lentamente cominciamo a distinguere noi stessi dalle
persone che ci circondano, e ancor più lentamente cominciamo a conoscere, negli
oggetti con cui entriamo in contatto, la differenza tra ciò che è duro, ciò che
è dolce o salato, ciò che è pericoloso e pericoloso non è. In altre parole
iniziamo a costruirci delle mappe cognitive per orientarci nel mondo e delle
mappe emotive che registrano l’impressione che le cose del mondo suscitano in
noi. Secondo Freud la costruzione di queste mappe avviene nei primi sei anni di
vita. Oggi le neuroscienze ci dicono che queste mappe raggiungono il loro
compimento definitivo nei primi tre anni di vita. Non che a tre o sei anni si
concluda la nostra conoscenza del mondo, ma certamente si conclude il nostro
“modo” di conoscerlo. Stando così le cose, lei capisce l’importanza che
assumono le persone che assistono i bambini nei loro primi anni, a partire dai
genitori che essendo i più presenti hanno una grande influenza nella
costruzione di queste mappe. (..). Crescendo poi, il bambino comincia a
chiedere il perché di tutte le cose. In pratica, e a sua insaputa, sta cercando
il nesso causale che lega una cosa all’altra. E’ stata questa la prima mossa che
l’umanità ha compiuto per difendersi dall’imprevedibile che genera angoscia, la
quale a sua volta paralizza il pensiero e azione: se io conosco la causa di un
certo evento ne prevedo l’effetto e la previsione mi sottrae all’angoscia
dell’imprevedibile. Se ai “perché” dei bambini, che a volte pongono questioni
non dissimili da quelle filosofiche, si risponde: “Quando sarai grande
capirai”, ancora una volta il messaggio che si invia suona come una
svalutazione della domanda e quindi del bambini che l’ha posta.(..). Se tutto
quello che abbiamo detto è vero, ricondurre le sofferenze dell’adulto a come le
sue mappe si sono formate nell’infanzia, e quindi ai suoi genitori che con la
loro presenza o la loro assenza hanno contribuito a formarle, non significa incolpare
i genitori per guadagnare a buon prezzo una seconda innocenza, ma riportare
quel che di positivo o di negativo ci accade alla loro radice, perché la
consapevolezza è la prima condizione per accedere a un possibile cambiamento e
a un miglioramento del nostro stile di vita.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 26 marzo 2016
Nessun commento:
Posta un commento