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venerdì 8 aprile 2016

Lo Sapevate Che: E' tra zero e tre anni che si diventa qualcuno...



Ritenevo che l’infanzia avesse un’influenza fondamentale per il futuro adulto e le sue caratteristiche, finché non ho letto Conversazioni di Iosif Brodskij, che in proposito dice: “Il mio atteggiamento potrà forse apparire semplicistico, ma non riesco ad apprezzare tutta l’importanza che Freud dà a questa fase della vita. Non credo che vi risiedano tutte le risposte ai comportamenti dell’adulto. Piuttosto parlerei di fuga dall’infanzia. Della psicoanalisi è proprio questo a darmi fastidio: ricorrere all’infanzia per creare nel soggetto uno stato mentale di vittimismo. In un certo senso riversa la responsabilità su altri, liberando l’individuo dal dovere di rispondere dei propri atti. Così crea una cultura della vittima, e con il suo indice accusatorio gira a 360 gradi in cerca di qualcuno da incolpare”. Da una parte mi viene voglia di rifiutare brutalmente questa affermazione, da un’altra mi sembra illuminante nella sua forza provocatoria rispetto a certe degenerazioni della psicanalisi da talk show.        Roberto Branca   roberto_branca@liberto.it
Quando veniamo al mondo non disponiamo di nessun codice per orientarci. Percepiamo solo il seno di nostra madre, che non riconosciamo neppure come persona altra da noi. Solo a poco a poco e molto lentamente cominciamo a distinguere noi stessi dalle persone che ci circondano, e ancor più lentamente cominciamo a conoscere, negli oggetti con cui entriamo in contatto, la differenza tra ciò che è duro, ciò che è dolce o salato, ciò che è pericoloso e pericoloso non è. In altre parole iniziamo a costruirci delle mappe cognitive per orientarci nel mondo e delle mappe emotive che registrano l’impressione che le cose del mondo suscitano in noi. Secondo Freud la costruzione di queste mappe avviene nei primi sei anni di vita. Oggi le neuroscienze ci dicono che queste mappe raggiungono il loro compimento definitivo nei primi tre anni di vita. Non che a tre o sei anni si concluda la nostra conoscenza del mondo, ma certamente si conclude il nostro “modo” di conoscerlo. Stando così le cose, lei capisce l’importanza che assumono le persone che assistono i bambini nei loro primi anni, a partire dai genitori che essendo i più presenti hanno una grande influenza nella costruzione di queste mappe. (..). Crescendo poi, il bambino comincia a chiedere il perché di tutte le cose. In pratica, e a sua insaputa, sta cercando il nesso causale che lega una cosa all’altra. E’ stata questa la prima mossa che l’umanità ha compiuto per difendersi dall’imprevedibile che genera angoscia, la quale a sua volta paralizza il pensiero e azione: se io conosco la causa di un certo evento ne prevedo l’effetto e la previsione mi sottrae all’angoscia dell’imprevedibile. Se ai “perché” dei bambini, che a volte pongono questioni non dissimili da quelle filosofiche, si risponde: “Quando sarai grande capirai”, ancora una volta il messaggio che si invia suona come una svalutazione della domanda e quindi del bambini che l’ha posta.(..). Se tutto quello che abbiamo detto è vero, ricondurre le sofferenze dell’adulto a come le sue mappe si sono formate nell’infanzia, e quindi ai suoi genitori che con la loro presenza o la loro assenza hanno contribuito a formarle, non significa incolpare i genitori per guadagnare a buon prezzo una seconda innocenza, ma riportare quel che di positivo o di negativo ci accade alla loro radice, perché la consapevolezza è la prima condizione per accedere a un possibile cambiamento e a un miglioramento del nostro stile di vita.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 26 marzo 2016

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