La sensazione di essere tra i principali
bersagli della criminalità organizzata non ha mai abbandonato il giudice
palermitano, da quando nel dicembre 1987 era arrivato a sentenza il primo
maxiprocesso a “Cosa Nostra”, che aveva portato alla condanna di 360 imputati,
tra affiliati e pericolosi boss latitanti. Un risultato ottenuto con anni di
indagini condotte da lui e dagli altri componenti del pool antimafia.
A fare terra bruciata attorno a lui non è solo
la mafia, bensì gli stessi ambienti giudiziari, che contestano i suoi metodi e
la sua condotta con i testimoni di giustizia. Sospetti e calunnie che lo fanno
sentire sempre più isolato e vulnerabile rispetto ai pericoli in agguato. Il
primo viene messo in atto nella sua villa all’Addaura, presso Mondello, il 20
giugno del 1989, quando un agente della scorta rinviene sugli scogli un borsone
con cinquantotto candelotti di dinamite.
Il clima di isolamento dei colleghi, unito
alle pressioni delle istituzioni centrali preoccupate della sua incolumità, lo convincono
nel 1991 ad allontanarsi dalla Sicilia e ad accettare l’incarico di dirigere la
sezione Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, presieduto da
Claudio Martelli. Con quest’ultimo s’impegna a portare a termine un progetto
che ha a cuore da tempo: la Superprocura antimafia.
L’idea di un coordinamento nazionale tra le
procure impegnate nella lotta a “Cosa Nostra” spacca la magistratura tra
favorevoli e contrari (tra questi il caro amico Paolo Borsellino), ma mette
d’accordo quelli dall’altra parte della barricata, che vedono ormai in Falcone
un nemico da abbattere. Su ordine del capo della cupola, al secolo Totò Riina,
viene progettato, per il febbraio del 1992, un blitz armato a Roma contro il
magistrato e il ministro Martelli, concepito anche per mandare un forte segnale
allo Stato.
Il progetto viene rimandato perché nel
frattempo maturano i presupposti per un altro assassinio: quello del deputato
DC Salvo Lima, ucciso il 12 marzo 1992. Poco più di due mesi dopo si
materializza un disegno criminale, tra i più efferati della storia
repubblicana. Sabato 23 maggio alle 17.40, Falcone e la moglie, Francesca
Morvillo, atterrano all’aeroporto palermitano di Punta Raisi. Da qui proseguono
a bordo di tre Fiat Croma blindate, su una delle quali si mette alla guida lo
stesso magistrato con accanto la moglie, scortata dalle altre due con dentro
sei agenti.
Pochi minuti dopo aver imboccato l’autostrada
A29, nelle vicinanze dell’uscita di Capaci, una mano assassina aziona con un
radiocomando a distanza 500 chilogrammi di esplosivo, nascosti in un tombino
dell’autostrada. Le lancette dell’orologio segnano le 17,56 quando l’istituto
di Geofisica registra la tremenda esplosione. Un quarto d’ora dopo arrivano i
primi soccorsi e lo scenario che si trovano davanti è agghiacciante: l’asfalto
non c’è più e al suo posto c’è una voragine larga trenta metri e profonda otto,
che racchiude un ammasso confuso di macerie, lamiere e corpi.
Catapultata a cinque metri di distanza c’è
l’auto di testa della scorta, con dentro i corpi senza vita degli agenti
Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Viene trovata spezzata in
due l’auto con la coppia che, ancora in vita, viene trasportata d’urgenza
all’Ospedale civico di Palermo. Qui dopo quasi due ore di agonia si spegne
Falcone e tre ore più tardi sua moglie Francesca. Se la cavano con ferite e
traumi gli altri tre agenti e alcune persone che si sono trovate a passare in
quei tragici istanti.
La notizia rimbalza sui TG nazionali e un
senso di profondo sgomento attraversò tutto il paese. Allo sconforto di aver
perso un simbolo della lotta a Cosa Nostra subentra la rabbia verso i politici,
espressa soprattutto ai funerali per le vittime di Capaci, tenutisi nel duomo
di Palermo e ai quali partecipa anche il neoeletto presidente della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro. Una cerimonia commossa rimasta impressa nella memoria
collettiva in particolare per il messaggio della vedova Schifani rivolto ai
mafiosi.
Un’intercettazione telefonica metterà subito
gli inquirenti sulla buona strada, nella ricerca di mandanti ed esecutori,
individuati in Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano e Totò Riina (gli ultimi
due catturati rispettivamente nel 1993 e nel 2006). Nel 2012 sarà arrestato il
pescatore Cosimo D’Amato, con l’accusa di aver procurato il tritolo utilizzato
per la detonazione, ricavandolo da ordigni bellici della Seconda guerra
mondiale recuperati sui fondali marini della Sicilia.
https://www.sindacatofelda.it/strage-di-capaci-sabato-23-maggio-1992/
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