Il clima di conflittualità sociale,
manifestatosi già all'inizio degli anni Sessanta, raggiunse la fase di maggiore
criticità verso la fine del decennio, in particolare con l'inizio della
contestazione studentesca del Sessantotto. Principale teatro di questi eventi fu
la città di Milano, dove forze extraparlamentari e di marcato spirito
rivoluzionario, come la formazione comunista Lotta Continua,
alimentarono una violenta contrapposizione alle istituzioni e alle forze
dell'ordine.
Dall'altra parte della barricata c'era la
Questura milanese, impegnata a contenere il fenomeno attraverso uomini come il
commissario Luigi Calabresi, vice capo della squadra politica della
Mobile. Il suo nome cominciò a entrare nel mirino delle frange rivoluzionarie
dopo la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969. Fu uno
spartiacque nella storia della Repubblica e nei rapporti tra forze dell'ordine
e contestatori.
Il giovane dirigente venne incaricato delle
indagini e la sera stessa della strage eseguì una serie di arresti negli ambienti
estremisti, specialmente anarchici. I sospetti si concentrarono su uno dei
fermati, Giuseppe Pinelli, di professione ferroviere. L'uomo fu
trattenuto per tre giorni e sottoposto a un estenuante interrogatorio; al terzo
il suo corpo cadde dalla finestra dell'ufficio del commissario, schiantandosi a
terra dopo un volo di quattro piani.
Una tragica morte che suscitò indignazione
nell'opinione pubblica e nella stampa di sinistra. Indignazione che si
trasformò in rabbia feroce dopo le conclusioni dell'inchiesta condotta dal
pm Gerardo D'Ambrosio, che definì la morte come accidentale,
causata forse da un improvviso malore, escludendo le piste del suicidio e
dell'omicidio. Una verità processuale rispedita al mittente dall'intellighenzia
di sinistra, rappresentata da scrittori, giornalisti, registi e attori di
chiara fama.
Tutti si ritrovarono uniti nella sottoscrizione
di un appello pubblicato sul settimanale L'Espresso, in cui si
rivolgeva un pesante atto d'accusa rivolto «ai commissari torturatori,
ai magistrati persecutori, ai giudici indegni», chiedendone
l'allontanamento. Aspetto eclatante di una campagna d'odio di
cui per oltre due anni fu oggetto Calabresi e che nell'organo di stampa
di Lotta Continua ebbe il suo centro propulsore.
Per le strade e sui muri rimbalzava una pesante
sentenza di condanna: «Calabresi, assassino!». Negli ambienti
istituzionali si avvertiva il timore che qualcosa di irreparabile potesse
accadere, per cui, all'inizio del 1972, si ipotizzò una sua promozione ad altro
incarico. Proposta che incontrò il rifiuto del 34enne, padre di due figli e di
un terzo che sarebbe arrivato di lì a qualche mese.
In un clima incandescente, il 7 maggio di
quell'anno si tennero le elezioni politiche, destinate ad essere ricordate per
l'ennesima protesta repressa nel sangue. Durante il presidio
antifascista organizzato da Lotta Continua, il ventenne Franco
Serantini venne pestato dagli agenti e arrestato, morendo in carcere dopo due
giorni di agonia. L'episodio finì per accelerare una sentenza di condanna a
morte che già era in discussione tra i vertici di LC.
Alle 9,15 di mercoledì 17 maggio, Calabresi uscì
dal portone di casa, in via Cherubini a Milano, avviandosi verso la sua
"Fiat cinquecento", parcheggiata poco distante. Il tempo di infilare
le chiavi nella serratura che un uomo, sceso da una 125 blu, gli si avvicinò
freddandolo con due colpi di pistola alla testa e alla schiena. Inutile la
corsa all'ospedale San Carlo, dove i medici non poterono che constatarne il
decesso.
Gli investigatori s'indirizzarono verso piste
senza sbocco, mentre emersero i primi dubbi e pentimenti sulla campagna d'odio
sostenuta contro la vittima, guardando anche ai riscontri emersi da una
successiva perizia sulla salma di Pinelli, che confermava l'ipotesi del malore,
e da una sentenza del Tribunale di Milano, che accertava l'assenza di Calabresi
al momento della caduta del ferroviere. Tuttavia il clima non si rasserenò
affatto e l'anno dopo, in occasione di una cerimonia in ricordo del
commissario, nel cortile della Questura milanese venne fatta esplodere una
bomba a mano, che lasciò a terra quattro morti e una cinquantina di feriti.
Sedici anni di buio sulle indagini furono
interrotti dalla confessione di Leonardo Marino, militante di LC, che portò
all'arresto, nel luglio del 1988, dei suoi ex compagni Adriano Sofri,
Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, gli ultimi due con l'accusa di essere
gli esecutori dell'omicidio, il primo come mandante. Riconosciuti colpevoli con
sentenza definitiva, i tre vennero condannati a 22 anni di reclusione.
Nel 2009, in occasione del Giorno della
memoria dedicato alle vittime del terrorismo, c'è stata una significativa
stretta di mano tra Gemma Capra, moglie di Calabresi, e Licia Rognini, vedova
Pinelli. Pur professatosi da sempre innocente e rifiutandosi di inoltrare
domanda di grazia, Sofri ha dichiarato, nel corso di un'intervista, di sentirsi
corresponsabile morale dell'omicidio.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/833001
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